Panico, disgusto e risate nella terra delle serie tv

Sceneggiatori che non guarderebbero mai quello che creano e prodotti tragicomici spacciati per capolavori. Al Festival di Roma s'è visto di tutto. Perfino roba buona

Panico, disgusto e risate nella terra delle serie tv

Roma - Chiude il Luna Park delle serie tv che da qualche anno si organizza a Roma. Come per i baracconi itineranti, tornando a casa, ci si amareggia perché lo zucchero filato non era buono come ce lo ricordavamo, la casa degli orrori non faceva orrore per niente e ci siamo fatti gabbare da tirassegno truccati. Forse non avevamo alcun bisogno di aggirarci tra efebici stagisti della Fox di un biondo innaturale, fanatici di The Walking Dead che sorseggiano spritz, truccati da zombie, pupazzoni di Simpson, Spongebob e Tartarughe Ninja che sfilano sul pink carpet (non è un refuso), circondati da invidiosi registi di videoclip e produttori indipendenti accorsi per procacciarsi contatti al mercatino di serial e docuweb, tra corridoi deserti la mattina, semideserti al pomeriggio e popolati della peggio marmaglia affetta da vippomania la sera. Ma insomma, una volta l'anno è divertente.

Il vero centro della faccenda però sono i verbosi convegni sullo stato di salute della fiction in Italia. Alla domanda «Ma perché fino a oggi abbiamo prodotto solo merda» la risposta degli addetti ai lavori sembra essere l' evergreen di Norimberga: «Eseguivamo gli ordini». A ben pensarci avrebbe anche potuto essere la log line del Roma Fiction Fest, certo più azzeccata della pretenziosa: «La fiction, niente di più vero» e della pedagogica: «Guardare la fiction per capire il reale» che campeggiano sui cartelloni dell'Auditorium.

Prese singolarmente, le intenzioni sono tutte ottime. A cominciare dalle riflessioni di Carlo Freccero, direttore artistico: «La nostra storia dimostra che i nostri migliori sceneggiatori hanno prodotto il nostro miglior cinema», «Il problema in Italia è che si produce solo per Canale 5 e Rai 1», «Ripartiamo dagli autori, produciamo per pubblici diversi, compreso quello che definisco dei borghesi con capitale culturale». Gli fanno eco Follini, Presidente dell'associazione dei produttori: «La produzione è un valore che la legge deve preservare», il Presidente della film commission Piemonte, Bracco: «La fiction è produttivamente interessante anche per il risvolto occupazionale sul territorio, date le varie settimane di riprese», Giusto Toni, tra le mille altre cose ex direttore generale Digicast, produttore di contenuti per Sky: «A parte piccoli orgasmi su Sky, la scelta sembra essere “O me ne vado a lavorare a Los Angeles o continuo a selezionare santi dal calendario”», lo sceneggiatore Nicola Lusuardi: «Siamo vittime di poche decisioni editoriali, pochi canali, quote fisse di guadagno che fanno in modo che il successo non conti e conti solo spendere meno di quello che incassi, in una gara al ribasso», il suo collega Stefano Sardo: «Su quanto sia necessario riportare al centro la scrittura in Italia basta pensare che le serie USA nel programma del Rff sono presentate con created by , quelle italiane con “regia di”. Dovremmo creare più show runner » e si potrebbe andare avanti per ore: hanno tutti ragione. Lo dico senza ironia. Sono tutti (o quasi) persone sensibili, raffinate, con palati televisivi e cinematografici a dir poco esigenti. Prova ne è che nessuno di loro, da spettatore, guarderebbe mai niente di tutto quello che fa.

E allora perché lo fa? Le spiegazioni si accavallano. C'è chi attacca l'idea che manchi un approccio industriale, chi all'opposto sostiene che in nome dell'approccio industriale si perda l'autorialità, fattore centrale nel rinascimento delle serie tv nel mondo. Chi attacca le emittenti televisive, chi il pubblico barbaro, chi il sistema politico. E non c'è niente da fare. Hanno tutti molte ragioni, ma nessuna soluzione. Soprattutto, come a Norimberga, tutti si de-responsabilizzano, tentando di camuffare e nobilitare una verità innominabile: «Faccio merda perché se non la facessi io la farebbe qualcun altro, tanto vale che sia io quello che estingue il mutuo sulla casa e ne accende uno per la barca».

È una scelta legittima. Che mi sentirei di sposare in prima persona. Ma poi non lamentiamoci se ci troviamo costretti a idolatrare piccole oasi felici e accettare di vivere in un paese creativamente desertificato in cui il massimo che si può dire è: «Beh, 'sta serie, per essere fatta in Italia… non è male».

Basta fare un esperimento. Se uno si guarda l'anteprima di serie come House of Cards , Utopia , Fargo , True detective , Orange Is the New Black (il RFF vale la pena per queste) e il minuto dopo entra in un'anteprima italiana, come si sente? Panico, vertigine, nausea. È quello che mi è successo con Il candidato . Presentata come «la risposta italiana al political drama » e «un'opera meravigliosa su un argomento spinoso: la politica» (apriti cielo), andrà in onda durante Ballarò con protagonista Filippo Timi. Gli autori dichiarano di non aver «ricevuto nessuna pressione dalla Rai» (chissà cosa avrebbero combinato altrimenti). Il risultato è una sketchcom che fa pensare a Camera café come a un capolavoro.

Per fortuna si ride con La narcotici . Peccato sia una serie drammatica. Altro argomento «spinoso»: la droga. Si sa, una piaga sociale. Trattata, viene detto, in maniera politicamente scorretta, ma «con uno sguardo ai bambini che ci guardano da casa» (ma che vorrebbe dire?!?). Immaginatevi il risultato. Vi dico solo che c'è una brava ragazza che viene indotta a drogarsi dal padre ricco e pederasta, dipendente da una sostanza letale. È chiaro che, subito dopo il primo tiro di roba, diventa lussuriosa e spregiudicata, continua a farsi senza sosta fino a ingaggiare una gara automobilistica con un treno in corsa. Picchi di sceneggiatura: «Avrei voluto che esistesse il tasto rewind per cambiare tutto e rimettere le cose a posto», «Sara, svegliati è primavera» e «Sembra un angelo caduto dal cielo».

Dire «cosa fare» per saldare autorialità e industria (che sono in contrapposizione solo nella testa dei mentecatti), assumerci responsabilità artistiche personali e smettere di «eseguire ordini» è complicato.

Ma è semplice dire «cosa non fare»: non assegnare premi per sceneggiature inedite a ragazzine che ritirandolo dicono senza ironia: «Ringrazio il mio cane per avermi ispirato i dialoghi», non farsi impartire lezioni di drammaturgia low budget dai produttori spagnoli di una soap di ambientazione bucolica ottocentesca o dai loro sodali turchi (ci mancava solo il turkish drama ) capaci di dichiarare: «Non abbiamo fatto nulla per avere successo all'estero, ci guardano anche i vietnamiti ma non sappiamo perché». Sarebbe un buon inizio per il Fiction Fest 2015.

Twitter: @cubamsc

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