Parlar male del mito non si può, e non lo farò neanche io. Così come non lo ha fatto nessuno dei presenti alla terza e ultima serata musicale di Bob Dylan e della sua band, ieri al teatro milanese degli Arcimboldi, tra i quali ero mescolato. Dirò però la verità che nessuno ha osato dire apertamente, ma qualcuno solo mormorare, probabilmente dopo aver ricalcolato la spesa non trascurabile sostenuta per l'evento: Bob Dylan, il grande Bob Dylan, è bollito e farebbe bene a prenderne atto.
Ieri sera ero lì perché ho la fortuna di avere un figlio diciassettenne innamorato del blues e del rock (quelli veri) e avevo deciso di regalargli un'esperienza da ricordare. Ma siamo usciti guardandoci in faccia perplessi. Tralasciamo l'ineleganza di non salutare il pubblico con una parola né all'inizio né alla fine dello spettacolo, se si esclude un «grazie amici» in italiano buttato lì prima di sparire per una lunga pausa-intermezzo: per decenni lui ha sempre fatto così. E ha anche sempre "rivisitato" i suoi brani più famosi proponendone versioni quasi irriconoscibili, e l'ha fatto anche ieri. Ma il problema non è stato tanto che capolavori come «A hard rain's a-gonna fall» e «Blowin' in the wind» fossero stravolti per scelta, quanto che lo siano stati perché Dylan non ha più voce. E per la stessa ragione il repertorio offerto è consistito quasi esclusivamente di una lunga serie di oscuri brani tra il blues e il country estratti in gran parte dai suoi lavori più recenti, alcuni dei quali («Forgetful Heart» e «Duquesne Whistle» ad esempio) ancora emozionanti. Ma nel complesso, le Muse ci perdonino, ci siamo sorbiti una lunga lagna lamentosa, invano contrastata da una band valorosa e tosta e dal sostegno commovente di un pubblico innamorato di un artista immenso. L'antico «vento del deserto» è diventato una raucedine aspra e inadatta al canto, e l'uomo che per mezzo secolo ha girato il mondo nel suo «Never ending tour» è palesemente stanco e provato, tristemente anchilosato nei movimenti.
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