Lo spettacolo che lo rivelò, Einstein on the Beach, durava cinque ore e mezza. Civil Wars dodici, Ka Mountain addirittura 24, ma moltiplicato per sette (e fu allestito in cima ad una montagna in Iran). Gli spettacoli di Robert Wilson non sono spettacoli, sono esperienze. Non si possono raccontare. E questo è forse il massimo complimento che si possa far loro: è stato infatti questo folle e geniale videoartista americano ad inventare performance che non sono prosa, né arte, né danza ma tutto questo assieme, in un mix d'imponderabile originalità, perché frutto d'una visione soltanto sua. Enorme interesse, quindi, ha suscitato la notizia che, per celebrare i suoi 80 anni, dal'11 al 14 Wilson riporterà al teatro Goldoni di Venezia diretto da Giorgio Ferrara uno dei miti della sua leggendaria carriera: quel I was sitting on my patio che lo stesso regista interpretò nel 1977 assieme a Lucinda Childs, e che oggi ha affidato a Christopher Nell, del prestigioso Berliner Ensemble, e a Julie Shanahan, del celebre Tanztheater Wuppertal di Pina Bausch.
Mister Wilson: come ha fatto a ricostruire uno spettacolo che nel 1977 fu definito «magico e irripetibile»?
«Sulla base di una pessima registrazione in videocassetta, e su vari appunti tratti dal mio archivio. Il protagonista, Christopher Nell, fa praticamente le stesse cose che facevo io, ma è un interprete molto diverso da me. Così ho cercato di adattare il materiale originale alla sua personalità. Anche Julie Shanahan ha lavorato ai videotape assieme a Lucinda, e insieme hanno ricostruito, adattandoli, tutti i suoi movimenti».
Riprendere uno spettacolo di quarant'anni fa significa che le convenzioni teatrali contro cui lei si scagliava allora ancora resistono? E che la sua forza di rottura è rimasta intatta?
«Significa solo che abbiamo interpreti odierni per un lavoro di quarant'anni fa. Quindi il prodotto resta lo stesso ma, al contempo, è anche completamente diverso».
La visualità è fondamentale nei suoi spettacoli. C'è un artista che più di altri ha ispirato il suo stile?
«Anche se siamo completamente diversi, il grande coreografo George Balanchine mi ha ispirato molto. E poi sono sempre suggestionato dai film in bianco e nero anni '30 e '40».
Le sue opere si basano spesso sulla dilatazione del tempo azioni eseguite come al rallentatore - e sull'assenza pressoché totale di dialoghi, solo effetti sonori e musicali. Si dice che quest'attitudine le derivi dall'insegnamento di teatro che guarì la sua balbuzie di ragazzino proprio grazie allo slow motion.
«Noi artisti di teatro siamo costruttori di tempo e di spazio. Sono due elementi essenziali: ad essi ricorrono tutti, in teatro».
Nel suo lavoro sull'Inferno di Dante cosa l'ha più sedotta di più dell'immaginario visivo del sommo poeta?
«Quello che ho percepito leggendolo. Il mio lavoro è sempre basato su qualcosa che sento, o che vedo, davanti a un soggetto».
Nel tempo lei ha collaborato con interpreti molto diversi: da star come Michail Barysnikov, Brad Pitt o Lady Gaga, ad attori letteralmente «presi dalla strada». Con chi si è trovato meglio?
«Chiunque sia in confidenza con sé stesso può entrare in relazione con un pubblico».
Gli italiani la conobbero nel 74, a Spoleto, con A letter for Queen Victoria. Dopo sei ore di spettacolo metà platea applaudiva in delirio, l'altra metà dormiva. Le sue esibizioni scandalizzano ancora qualcuno, oggi?
«Non ho la minima idea se i miei spettacoli scandalizzino qualcuno. In realtà non ci penso mai».
Quarant'anni fa di Robert Wilson ce n'era uno solo. Oggi molti registi cercano di essere Robert Wilson.
Conosce i lavori di Robert Carsen, Damiano Michieletto, Emma Dante?«Conosco il lavoro di Robert Carsen. È un amico, e ammiro quello che fa. Del resto copiare è un modo per imparare. Lo faceva anche Matisse. Se non copi gli altri non sarai mai in grado di realizzare ciò che sei».
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