Difficile immaginare un uomo più crudele di Josef Mengele, il medico che nel campo di concentramento di Auschwitz selezionava i deportati in tre categorie: chi avrebbe dovuto lavorare, chi doveva essere immediatamente ucciso nelle camere a gas e chi era adatto ai suoi macabri esperimenti. All'«angelo della morte» molti si sono interessati, partendo dal cinema che, dagli anni Settanta al recente The German Doctor, hanno cercato di capire questa personalità inquietante. Ma anche la letteratura ha indagato la sua figura: da Friedrich Dürrenmatt, che a lui si ispirò nel romanzo Il sospetto, a William Goldman in Il maratoneta. E oggi arriva nelle librerie italiane il romanzo del francese Olivier Guez, che con La scomparsa di Josef Mengele (Neri Pozza, pagg. 204, euro 16,50, traduzione di Margherita Botto) si è aggiudicato il Prix Renaudot 2017. Un romanzo che mette in crisi i generi per il modo in cui Guez ha lavorato sui materiali, per come li ha rielaborati, e per i diversi metodi di scrittura che ha utilizzato. Abbiamo incontrato lo scrittore e sceneggiatore a Roma, dove ieri ha cominciato il tour di presentazioni in Italia.
Come è nata l'idea di scrivere un romanzo sulla fuga di Mengele in Sudamerica dopo la caduta del regime nazista?
«Ci sono due ragioni. La prima è che ho collaborato alla sceneggiatura del film Lo Stato contro Fritz Bauer. Vi si racconta come il procuratore Bauer comunicò al Mossad la presenza di Eichman in Argentina. Ho letto molti libri sull'Argentina degli anni Cinquanta e mi capitava spesso di incontrare il nome di Mengele. C'era materia per una storia, anche perché in Europa non avevamo un'idea chiara sulla comunità nazista in Sudamerica. La seconda ragione nasce dal fatto che da quando, nel 2005, vivo a Berlino, ho cominciato a osservare i periodi dei dopoguerra. Gli anni dal 1914 al '45 sono stati quelli che chiamo la seconda Guerra dei Trent'anni. Un periodo storico che ha causato 85 milioni di morti. Mi sono chiesto come potessero le società riprendersi dopo una tragedia simile. E poi, quale era stata la sorte dei criminali? Mengele muore nel 1979. In che modo ha vissuto per tutto quel tempo, e come mai nessuno lo hai mai processato?».
Che cosa ha significato passare tre anni, il tempo che ha impiegato a scrivere il libro, accanto a un uomo che decideva della vita e della morte di migliaia di persone?
«All'inizio non riuscivo ad affrontare Mengele faccia a faccia. Ho dovuto dedicare molto tempo a comprendere come la letteratura si fosse rapportata ai grandi criminali. Poi ho letto A sangue freddo di Capote e ho capito che dovevo scrivere un romanzo di non-fiction. Il momento in cui l'ho affrontato direttamente è stato orribile. Mengele è una persona che ti divora, che ti mangia da dentro. Dopo aver letto ciò che aveva fatto ad Auschwitz e aver studiato la medicina nazista, ero devastato. Sono riuscito col tempo a creare una distanza tra me e lui e a osservare con distacco la sua vita dopo la guerra. C'è stato un godimento perverso nel torturare Mengele, nel raccontare la fine patetica della sua vita. Sono stati tre anni difficili, ma più andava avanti il racconto, più percepivo che non avevamo nulla in comune, e che non provavo nessuna pietà».
Ma per uno scrittore è possibile non avere, per quello che è divenuto letteralmente il suo personaggio, una qualche forma di pietà?
«Ho corso il rischio di averne, ma alla fine sentivo addirittura che avevo fretta di ammazzarlo. Però è a questo che serve la letteratura: lasciare al lettore la libertà di provare i suoi sentimenti, siano questi di disgusto, ma anche di pietà per un uomo tutto sommato vecchio e malandato. Certo, non si può provarne per l'uomo che è stato nel campo di concentramento, ma per il vecchio che è diventato sì».
Che cosa è davvero reale, in letteratura: le azioni che un uomo ha compiuto e di cui abbiamo testimonianza, o la capacità di vederle, queste azioni, attraverso il filtro della scrittura?
«Nella prima parte del libro Mengele non viene ricercato perché è una delle tante pedine sulla scacchiera della Storia. E la scacchiera, semplificando, è la guerra fredda. La seconda parte, pur essendo più romanzata, si basa comunque su fatti reali che ho appreso da estratti del diario di Mengele pubblicati negli anni Ottanta. Ho messo in scena tutte le informazioni che ho trovato. La questione importante, però, è che, anche quando si scrive un saggio storico, c'è sempre qualcuno che ai fatti dà la sua interpretazione, aggiungendo la propria visione del mondo».
Hannah Arendt, seguendo il processo di Eichmann a Gerusalemme, aveva parlato di «banalità del male», cioè di un male compiuto perché eseguito acriticamente. Non mi sembra si possa affermare la stessa cosa di Mengele...
«Mengele è il prodotto di un'ottima famiglia conservatrice. Ha molto denaro, ha fatto ottimi studi, ha due dottorati in materie che sono al cuore dell'ideologia nazista, cioè la medicina e l'antropologia. Tutto nel nazismo si basa sulla biologia: la legge, il diritto, l'economia. E Mengele è esperto proprio di questo ramo della medicina. È un uomo estremamente ambizioso. Accetta di andare ad Auschwitz perché il campo sarebbe stato, dal suo punto di vista, il laboratorio più grande del mondo, dove invece di fare esperimenti sui ratti avrebbe potuto compierli sugli esseri umani. Era convinto che dopo la guerra avrebbe ottenuto una cattedra all'università. La sua è un'altra forma di banalità del male. Va detto, però, che quando la Arendt scrive il libro, non è a conoscenza di tutto. Eichmann, durante il suo processo, rispondendo all'accusa si prese gioco di tutti, affermando di non essere colpevole perché eseguiva solamente degli ordini. Ma adesso sappiamo che non era così, che la sua visione del mondo era davvero nazista. Mengele invece, aspetterà l'età di ventisei, ventisette anni per aderire al nazismo, ma il suo è un modo per fare più velocemente carriera.
Era un uomo orribile, ha fatto delle cose orribili ma, a differenza di Eichmann, non era un ideologo. A muoverlo è stato solo l'opportunismo... E l'agghiacciante capacità di resistere psicologicamente alle torture che infliggeva».
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