Coca, prostitute e povertà: ecco la Bogotà di "Narcos"

Viaggio nei luoghi dove è ambientata la serie in onda da oggi su Netflix: ritratto fedele dei drammi colombiani

Coca, prostitute e povertà: ecco la Bogotà di "Narcos"

Nei giorni in cui la premiere della terza stagione di Narcos ci fa fare narrativamente un salto in avanti nel tempo, lasciandosi alle spalle il protagonista delle prime due stagioni, Pablo Escobar, con il suo regno quasi ventennale, è attesa la visita di Papa Francesco a Bogotà per blindare l'ennesima promessa di pace tra governo colombiano e guerriglieri bolivariani.

Ogni affollatissimo autobus alterna il numero e la destinazione con la scritta elettronica «Bienvenido Papa». Solo gli autobus, perché in questa megalopoli da 9 milioni di abitanti non ci sono né treni, né metropolitane. I soldi pubblici, insieme ai contributi degli Usa, servono per difendersi da trafficanti e guerriglieri con soldati e poliziotti cinofili appostati a ogni angolo di strada. E non ne avanzano per trasporti, ospedali e scuole. È il prezzo pagato per lo scontro tra narcotrafficanti, istituzioni e guerriglieri che attraversa e condiziona tutta la storia moderna della Colombia di cui parla Narcos. Decenni di violenza per le strade e nelle foreste a colpi di attentati, formazioni paramilitari, politici inetti, corrotti o entrambe le cose, in un Paese che, nonostante la droga (o forse grazie alla) si è nel frattempo attestato come una potenza di media grandezza nel continente americano.

La terza stagione riparte (disponibile da oggi sulla piattaforma Netflix) da Laredo, in Texas, dove l'agente Javier Peña è stato rispedito per punire i suoi comportamenti sopra le righe. E ha smesso di fumare. La lotta a Escobar gli è costata la moglie, che si è rifatta una vita. Al contrario del tormentato agente della Dea, sofferente donnaiolo, ossesionato dalla lotta ai narcos. È un momento alla Father and son di Cat Stevens. Il padre vorrebbe che restasse. Il figlio risponde: I have to go. Naturalmente, in Colombia.

A far ricominciare a fumare Peña sarà il cartello di Cali, la cui capacità di corruzione e sorveglianza contro le forze dell'ordine e i dissidenti interni spinge al parallelo col Kgb. Così come i metodi dei cabelleros di Cali, spettacolarmente brutali e insieme accuratamente discreti: in una scena, vediamo un nemico legato gambe e braccia a quattro motociclette che partono facendolo letteralmente a pezzi, che verranno gettati in un fiume: «Cibo per i pesci. Niente corpi, niente reati. Niente statistiche degli omicidi in aumento. Niente problemi».

Pochi giorni a Bogotà bastano per rendersi conto che il filone narrativo di Narcos è ben lontano dall'esaurirsi. Nella capitale in attesa di Papa Francesco vengono cancellati graffiti illegali in fretta e furia, innalzate bandiere, pulite le facciate dei palazzi storici e delle chiese, come la cattedrale di Plaza Bolívar. Ma anche se La Candelaria, il centro storico, viene tirato a lucido, per le strade, insieme ai turisti che vengono ad ammirare i graffiti di artisti prestigiosi restano gli studenti universitari che protestano contro le ingerenze a stelle e strisce sulle scelte del governo colombiano e soprattutto centinaia di zombie, ex cocainomani ridotti a sniffare colla perché non possono più permettersi la pur economica coca locale. «Li riconosci dai senzatetto normali», mi dice una ragazza del posto, «perché parlano da soli, fissano il vuoto e la maggior parte non riesce nemmeno più a raccogliere la spazzatura per portarla ai depositi di riciclaggio e ottenere in cambio quei pochi spiccioli con cui potrebbe comprarsi altra droga». Le vittime indirette dei cartelli sono accasciare dovunque, davanti ai portoni di alberghi e ostelli, ministeri e piazze presidiate, in mimetica e fucili d'assalto, da militari giovanissimi che hanno trovato una via di fuga dalle favelas che da queste parti preferiscono, romanticamente, chiamare barrio.

Come il barrio Santa Fe. A poche carreras dalla Candelaria spariscono i coffe shop legali dove i turisti etnochic possono fumare marjuana e comprare tè con foglie di coca. In questo triangolo di tolleranza ci sono decine di bordelli mascherati da pensioni, dove per un sovrapprezzo di 7mila pesos (circa 2 euro) i clienti meno esigenti si appartano con trans e ragazzine che lavorano in strada dalla mattina presto alla sera tardi compresa la domenica per compensi che raggiungono al massimo i 25mila pesos (7 euro) a prestazione. E dove, naturalmente, si compra cocaina facilmente: un grammo, 3 o 4 euro (in Italia tra gli 80 e i 100). «Però, i turisti in cerca di esperienze esotiche che vengono qui invece che nei club a luci rosse molto costosi della zona rosa a nord», mi racconta un operatore sociale, «preferiscono comprare la coca intorno ai loro hotel, i cani antidroga sono tolleranti con le piccole quantità ed è più buona, tanto a loro che gli cambia pagarla 7 euro al grammo invece che 3?».

Anche di questo, direttamente e indirettamente, parlerà sempre di più Narcos: di un Paese che vuole abbandonare lo stereotipo negativo che lo accompagna da decenni.

E delle generazioni di ragazzini nati nel posto sbagliato, in un lungo momento sbagliato, che hanno preso a modelli gli unici adulti che conoscono che hanno trasformato la baracca in cui sono nati in una villa con piscina: i narcos. Che per noi sono esaltanti paradigmi romanzeschi di vite che non sarebbero potute essere la nostra. Per loro, il contraltare armato di calciatori e veline che vorrebbero diventare.

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