Da tempo dibattuta, la questione è esplosa nel 2016, quando a Bob Dylan venne assegnato il Premio Nobel per la Letteratura. Dividendo nettamente le opinioni tra chi sostiene che comunque «sono solo canzonette» e chi invece no, la musica pop-rock, per l'importante contributo fornito allo sviluppo della cultura è in alcuni casi degna di considerazione paritaria, se non addirittura superiore, alla nobile arte letteraria.
Dylan peraltro è stato definito spesso un poeta perché la sua scrittura, oltre a strabordare di riferimenti colti, ha una capacità immaginifica che va ben oltre i confini dell'intrattenimento. Insignito del massimo riconoscimento per le sue canzoni, in verità Dylan si è dedicato a vere e proprie incursioni in quello che Primo Levi definiva «l'altrui mestiere»: il romanzo sperimentale Tarantula del 1971 e il primo volume del memoir Chronicles (2005) di cui non è mai uscito un seguito. Esiste il vago sospetto sulla sua assoluta convinzione di saper fare al meglio qualsiasi cosa gli venga in mente, compreso lo scultore e il pittore, meritevole di esporre persino da Gagosian.
Riottoso, personaggio come sempre, alla cerimonia di consegna del Nobel in prima battuta Dylan non andò e al suo posto mandò l'amica Patti Smith. Una scelta niente affatto casuale, poiché se si parla di letteratura anche l'ex sacerdotessa punk merita un posto di rilievo. Il suo Just Kids, il romanzo di formazione sulla giovinezza passata a fianco di Robert Mapplethorpe, è testo intenso e struggente, uscito nel 2010, preceduto e seguito da altri significativi. Seconda coincidenza: anche Smith è attratta dalle immagini, proclamandosi così artista a 360 gradi, proprio come il Menestrello di Duluth.
Due casi, però, non fanno una storia. A palesare le infinite attrazioni fatali tra musica e letteratura ci ha pensato Marco Denti con Storie sterrate. Musicisti/scrittori. Scrittori/musicisti, in uscita il 18 febbraio per Jimenez Edizioni. Si noti la reversibilità nel pay off, perché se l'elenco di musicisti tentati dalla scrittura è piuttosto lungo, è corretto registrare qualche caso opposto, primo fra tutti quello di William Burroughs, la cui tecnica cut-up ha ispirato generazioni, che ha pubblicato diversi album dallo spirito dub, in particolare Spare Ass Annie and Others Tales (1993) andrebbe riascoltato.
Altro episodio di doppia identità è quello di Jim Carroll, songwriter indie che nel 1978 scrisse The Basketball Diaries (Jim entra nel campo di basket è il titolo dell'edizione italiana) da cui venne tratto il film Ritorno dal nulla con Leonardo Di Caprio quasi all'esordio.
Sostanzialmente la casistica del libro di Denti, documentato e necessario, si divide in due grandi categorie: i rockers con ambizioni letterarie e i rockers che attingono a piene mani dalla letteratura parole, immagini, situazioni per trasformarle in canzoni. Nick Cave, ad esempio, ha una lunga e rinnovata produzione da scrittore. Ne citiamo tre: E l'asina vide l'angelo (1989), La morte di Bunny Munro (2009) e il recente Stranger than Kindness (2020), accompagnato da molte immagini.
Se in tal senso le ambizioni del crooner australiano sono palesi, il quid letterario di Neil Young può risultare una sorpresa, eppure i testi autobiografici pubblicati da noi sono davvero interessanti: Il sogno di un hippie (2012) e soprattutto Special Deluxe. Racconti di vita e di automobili (2014) che rivela la passione collezionistica del cantautore per le macchine d'epoca. Prolifico fu Leonard Cohen, romanziere, poeta, scrittore per l'infanzia, in particolare nei testi degli anni '60, Il gioco preferito e Beautiful Losers.
Sorge a questo punto spontanea la domanda. Ma sono altrettanto bravi con le parole che con le note? E soprattutto, meritano, almeno nei casi più eclatanti, l'assunzione all'olimpo della letteratura o si tratta più che altro di uno sfizio, di una prova di forza?
Più comune, e divertente, è il rintracciare quelle fonti che stanno dentro le canzoni. Cominciando ovviamene da Jim Morrison, di cui Marco Denti racconta: «Riempiva i taccuini con una bella calligrafia, Jim Morrison. Ordinata, chiara, leggibile, letteralmente pulita, un po' inclinata a destra. Aveva cominciato così, consapevole che la vera poesia non dice niente, elenca solo delle possibilità. Apre tutte le porte». Una figura di ribelle coltivata nell'America fin dai tempi di Walt Whitman.
Di quanti musicisti abbiamo bisogno per capire lo spirito e gli stereotipi culturali degli States? Certamente di Bruce Springsteen, «una voce potente, quando la terra promessa si è svelata in un intreccio di raccordi autostradali e centri commerciali perché come scrive Richard Ford il mondo diventa più piccolo e più concentrato quanto più a lungo vi restiamo, ed è rimasta solo una città in rovine». Certamente di Tom Waits: «Ho scoperto Kerouac e Ginsberg quando ero adolescente, mi hanno salvato la vita. Essendo cresciuto senza un padre, ho sempre ricercato negli altri una figura paterna, e quegli scrittori lo sono più o meno diventati. Leggere Sulla strada ha arricchito di un'affascinante mitologia la mia vita di tutti i giorni e ha spinto anche me sulla strada, pieno di curiosità e di voglia di scandagliare le piccole cose della vita». Certamente di Lou Reed: perché Lou Reed è New York e, come chiedeva Don DeLillo, «che cosa accade quando una città non può impallidire languidamente fino alla sua fine, non può venire abbandonata pezzo per pezzo alla sua verità distrutta, le sue età stratificate di ferro e mattoni? Quando essa contiene solo la tensione e la paralisi del nuovo superficiale? Paralisi. Ecco ciò che la città ci insegna a temere».
Accanto a vicende stranote, ci sono alcune chicche per intenditori, dove arte e vita si intrecciano: Vic Chesnutt, Warren Zevon, Gil Scott-Heron, Billy Corgan...
E un giusto spazio riservato alla scrittura femminile: Laurie Anderson, Joni Mitchell, Suzanne Vega, Lucinda Williams. Manca solo Life di Keith Richards, la più bella autobiografia sonica mai scritta, che forse l'autore delle Storie sterrate ha ritenuto poco letteraria, seppur densa di verità e r'n'r.
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