«Volevo che il mio libro fosse sospeso tra realtà e sogno». Con queste parole chiare, Victor LaValle fornisce al lettore un'indicazione di quanto può attendersi dal suo primo romanzo tradotto in italiano, Favola di New York (Fazi, pagg. 510, euro 20; trad. Sabina Terziani). Il titolo originale, The changeling, sarebbe stato pressoché intraducibile, dato che la parola inglese indica il bambino che si pensa che le fate abbiano scambiato con uno rapito. Eppure, proprio in quel titolo sta un primo legame con il mondo delle fiabe, non sempre rassicurante ma carico di suggestioni.
Apollo, il protagonista, è figlio di una donna single di origini ugandesi. Del padre non resta che una scatola di libri, una sorta di dannazione oppure un dono di Dio. L'ossessione per i libri si trasforma in una professione: andare in giro a raccogliere libri antichi e commerciarli. È così che Apollo conosce Emma, una bibliotecaria di cui si innamora. Ma, come in qualsiasi fiaba che si rispetti, a scombinare le carte giunge qualcosa di inaspettato, l'arrivo di un figlio, che sconvolgerà gli equilibri familiari e porterà a gesti radicali, spingendo Apollo alla ricerca della verità in una New York davvero in bilico tra mito e realtà.
New York, dunque, come fulcro della narrazione, come ci racconta LaValle stesso.
«Sono nato e cresciuto nel Queens, dunque sono un vero newyorchese. Per questo, ho voluto rendere la mia città più tangibile possibile per i lettori. Non è naturalmente una novità: libri, film, televisione lo fanno costantemente e può sembrare che non ci sia molto altro da dire su questo posto, ma ecco dove la mia conoscenza del Queens mi è stata molto utile. Ho visto tanti luoghi celebri di New York venire usati, ma sapevo che la mia New York era in gran parte sconosciuta e, dunque, in un certo senso, ho avuto vita facile. Non ho dovuto far altro che raccontare con autenticità quello che avevo dentro. Chissà che davvero non sia riuscito a trasmettere al lettore qualcosa di nuovo su New York».
La sensazione che il libro trasmette è quella di una storia che pencola tra realtà e fantasia sfrenata. È stata una scelta voluta?
«La storia si apre in un mondo reale, ma sapevo fin dal principio che poi avrebbe sterzato verso il regno della fantasia e ho dovuto pensare a come aiutare il lettore nella transizione da un mondo all'altro. Dunque, ho tentato di creare tratti sognanti fin da subito, ma senza esagerare. E, man mano che la storia progrediva, tiravo sempre più indietro la tenda per fare in modo che davvero al lettore sembrasse di entrare nel mio sogno a occhi aperti. E, alla fine, persino gli eventi che per quasi tutto il libro sembravano inverosimili rientrano assolutamente nel campo del possibile. Ci sono stati libri che mi hanno aiutato a trovare l'equilibrio giusto tra quei due mondi. Per esempio, Abbiamo sempre vissuto nel castello di Shirley Jackson, Il venditore di sogni di Ben Okri, Shining di Stephen King.»
Anche Lei è sempre stato un bibliofilo accanito?
«Ho sempre amato leggere, ma non sono cresciuto in una casa di lettori. Mia madre ha fatto la segretaria per tutta la vita e ha lavorato duramente, facendo i salti mortali per sostenerci. Di sera, preferiva guardare la televisione. Non me la sento di biasimarla. Io, invece, sono sempre stato attratto dai libri e ho iniziato dai fumetti. Mi fermavo davanti a un'edicola, all'angolo della strada, a leggere i fumetti se non avevo i soldi per comprarli e le due sorelle che la gestivano non se ne sono mai lagnate. Dai fumetti sono passato ai tascabili da supermercato: romanzi d'amore, di spionaggio e orrore, thriller. Avrei letto di tutto. E devo ringraziare mia madre: malgrado non leggesse tanto, capiva quanto fossero importanti i libri per me e, se oggi sono uno scrittore professionista, lo devo alla sua generosità di fronte a una passione che non sempre comprendeva».
Lei cita un numero impressionante di libri, tra i più disparati. Da Il buio oltre la siepe di Harper Lee ai best seller di Clive Cussler, a I fiori del male di Baudelaire...
«Tutti i libri migliori nascono da altri libri. Non c'era motivo per nascondere le mie fonti di ispirazione. Il tema della paternità è un tratto comune a molti dei libri che ho menzionato nel romanzo e mi è parso una buona ragione per inserirli. Altri, semplicemente, sono libri che ho sempre amato, Cussler incluso, di cui ricordo in particolare Vortice. Baudelaire merita sempre una citazione!».
Favola di New York, un romanzo alquanto lungo, come lo ha scritto? Pianificandolo nel dettaglio o lasciandosi trasportare dal flusso narrativo?
«In realtà, il libro doveva essere ancora più lungo e, se non ricordo male, ne ho tagliato almeno centocinquanta pagine. Mi stavo divertendo a tal punto che non volevo più smettere. Poi ho pensato che, forse, i lettori non si sarebbero divertiti altrettanto, almeno in quelle pagine. Ho accettato il consiglio di tagliarlo. E sono felice di averlo fatto».
Ci può dire qualcosa dell'ossessione del protagonista per l'esoterista Aleister Crowley e la magia nera?
«Quand'ero poco meno che trentenne, ho lavorato per un commerciante di libri usati e uno dei miei colleghi aveva la cartolina di Crowley di cui parlo nel romanzo. Quello che c'era scritto non era lo stesso messaggio da me menzionato nel libro, ma quella cartolina era appesa nel nostro piccolo ufficio e mi capitava spesso di guardarla.
C'era un che di strano e meraviglioso nel fatto che una cartolina della Bestia fosse finita nell'ufficio di un anonimo libraio. Mi sembrava perfettamente in tono con la miscela di sogno e realtà che animava il mio libro e, così, ho deciso di inserirla».
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