"Cymbeline", è comodo avere Shakespeare come sceneggiatore...

Michael Almereyda segue fedelmente il dramma omonimo del Bardo Si limita a trasportarlo in una New York odierna gotica e criminale

"Cymbeline", è comodo avere Shakespeare come sceneggiatore...

da Venezia

Cymbeline, re di Britannia, passati i secoli è divenuto il capo di una gang metropolitana d'oltreoceano. Indossa t-shirt nere di Armani e giubbotti di pelle, è armato di fucile mitragliatore. Suo genero Posthumus, esiliato a causa delle gelosie della corte, gira armato in skateboard, il suo servo Pisanius è un killer latino-americano, la sua sposa Imogen una teenager romantica e ribelle con iPad cellulare. La Regina è esperta in droghe, suo figlio Cloten un debosciato dedito all'onanismo, Guidarius e Arviragus, i figli di Cymbeline rapiti al padre in tenera età, stanno con i ribelli e portano magliette con l'effigie del Che, il generale romano Lucio Claudio adesso è a capo della potente e corrotta polizia locale.

Mal consigliato, Cymbeline si rifiuta di pagargli quel tributo che ormai è una tangente e così scoppia la guerra, mentre crescono gli intrighi, entrano in scena mezzani e traditori, scorre il sangue e scorrono i veleni, la violenza sembra trionfare, ma è poi l'amore a prendersi la sua rivincita: «Il gelo dell'inverno più non ti farà male/ e ti puoi riposare, ch'è finita la strada». William Shakespeare è nostro contemporaneo, dice il regista Michael Almereyda, sulla scorta di un celebre saggio di Jan Kott, e resta attuale al tempo della tecnologia e della post-modernità.

L'operazione non è nuova e specie da un cinquantennio a questa parte c'è stato un profluvio di rivisitazioni dei classici, spesso e volentieri pretestuose e dove il narcisismo dei registi toccava le vette del comico. Cymbeline (in concorso nella sezione «Orizzonti») ne esce pressoché indenne, forse perché Almereyda ha l'umiltà necessaria per mettersi al servizio del testo e farne risaltare quella grazia potente e malinconica che rende Shakespeare il miglior sceneggiatore di cui ancora oggi Hollywood possa disporre.

La scelta degli attori fa il resto. Ed Harris, rugoso e muscoloso, è il Cymbeline ingannato dalla regale quanto perfida Milla Jovovich: «La colpa non fu dei miei occhi, perché era bella. Né delle mie orecchie, che prestarono ascolto alle sue lusinghe, né del mio cuore, che ebbe a crederla pari alle sue sembianze. Diffidare di lei sarebbe parso colpevole. Eppure, puoi ben dire che in me era la follia». La fedele e intrepida Imogen è Dakota Johnson; Penn Badgley è Posthumus, il marito coraggioso quanto follemente geloso: «Ella fu il tempio della virtù, anzi la virtù stessa. Sputatemi addosso, lapidatemi, e gettatemi nel fango e poi sguinzagliatemi addosso i cani della strada. A ogni canaglia sia dato il mio nome: Oh, Imogen! Mia regina, mia vita, mia sposa!». Ethan Hawke è Jachimo, l'infido calunniatore di quest'ultima.

Le musiche di David Ludwig e Bryan Senti fanno da accompagnamento a una storia di amore e di morte che ha una New York diroccata a fare da cornice: motociclette e magazzini abbandonati, periferie e pompe di benzina, strade solitarie e agguati.

Su tutto la poesia di Shakespeare plana come un aliante e si impone con la sua greve leggerezza, una sorta di racconto fatato che incanta nel suo agrodolce impasto di speranza e disillusione. «Giovani dalle chiome bionde e fanciulle in fiore/ muoiono, come il nero spazzacamino muore».

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