Dai globalisti agli antimoderni. Il virus influenza il pensiero

Le "famiglie" culturali rispondono in modo molto diverso alle domande sul futuro e su come ridare senso al mondo

Dai globalisti agli antimoderni. Il virus influenza il pensiero

Potrà sembrare un aspetto secondario in questo momento, ma in verità è l'architrave su cui poggerà il nostro futuro. Il Covid-19 ha conseguenze drammatiche sull'economia, sulla società, sull'istruzione, ma ne ha anche sul pensiero. Intorno a quali categorie si organizzerà la nostra comprensione del mondo, il nostro dare senso ad esso? Chi eserciterà nei prossimi anni l'egemonia culturale? Quale narrazione risulterà vincente, ispirando l'azione delle classi dirigenti e modulando il senso comune dei cittadini? Nulla sarà più come prima, o al contrario tutto resterà immutato ma in peggio come ipotizza Michel Houellebecq?

Altrove, soprattutto in Francia, il dibattito è già ampio. In Italia le posizioni cominciano solo ora a delinearsi, in un contesto nazionale in cui la riflessione intellettuale sembra ancora asfittica e legata ai topoi rassicuranti del moralismo e del politicamente corretto. Proviamo a individuare qualche filone di pensiero, quasi come un divertissement intellettuale e tenendo ben presente che si tratta di tendenze che a volte si pongono in alternativa fra loro e altre volte si intersecano.

1. I globalisti. Sembra impossibile, ma continuano ancora ad esserci coloro che giudicano la crisi attuale come un incidente di percorso, come qualcosa che prima o poi sarà superato e archiviato e ci rimetterà sui binari felici del Progresso e della Globalizzazione. D'altronde, si dice, il virus ha mostrato che siamo in un mondo iperconnesso e che un problema che sorge in una lontana provincia cinese in poche settimane può diventare un problema comune a tutto il mondo. Dobbiamo quindi ripartire accelerando la collaborazione e la condivisione fra i popoli, in vista di un governo unico mondiale, e di un'etica comune all'umanità (ovviamente quella della correctness). «A problemi globali, una risposta globale».

2. Gli anticapitalisti. Per costoro il Covid-19 conferma le loro analisi di sempre: in crisi è il nostro modello di sviluppo, che non è riformabile ma va rovesciato. Quale sia l'alternativa non è dato sapere, e comunque ognuno la immagina a suo modo. La sinistra radicale pensa come al solito al comunismo, ovviamente e come sempre quello «vero» e non ancora mai realizzato; qualcuno a una «decrescita felice» e casomai green. I pensatori della sinistra radicale fanno dell'attuale una crisi di diseguaglianza crescente, e quindi di un modello di sviluppo non da riformare ma da sovvertire.

3. I gretisti. In parte sono anticapitalisti della sottospecie decrescista anche loro, in parte annoverano fra le proprie fila molti capitalisti che sperano in questo modo di riconvertire il sistema di produzione in un'ottica schumpeteriana di «distruzione creatrice». Ovviamente un capitalismo non liberista, come quello dei globalisti, ma statalista nel preciso senso che, con una buona dose di ingegneria sociale e costruttivismo vorrebbe affidare allo Stato il compito di impostare dall'alto e poi accompagnare la trasformazione. La quale, come dice Luciano Floridi nell'ultimo suo libro, deve essere verde e blu al contempo, fondata cioè sulla riconversione ecologica e sulla Intelligenza artificiale.

4. I sovranisti. Sembrerebbero i vincenti di questa partita, con il mondo costretto a chiudere i confini e con il ritorno prepotente degli interessi nazionali. Non coperti nemmeno più, a livello continentale, da quella retorica europeista che accomunava politici e burocrati di Bruxelles. I globalisti dicono ora spesso le cose che dicevano prima gli odiati sovranisti. Tanto che persino Romano Prodi arriva a proporre all'Italia il reshoring, il rientro in patria di aziende e lavorazioni negli anni delocalizzate. Eppure, è come se ai sovranisti mancasse un'idea per il futuro, dopo avere nel passato visto il presente meglio degli altri. La loro presenza annuncia nuove sintesi e nuovi equilibri, ma questi tardano a delinearsi.

5. Gli antimoderni. Sono coloro che riconducono la situazione attuale del mondo a una crisi spirituale, di civiltà, soprattutto dell'Occidente che ha perso o non crede più nei propri valori. È la «dittatura del relativismo», di cui parla Ratzinger. Per i più catastrofisti di loro non c'è più speranza, e solo «un Dio potrà salvarci». Per altri c'è bisogno di invertire drasticamente la rotta e ritrovare nel passato la spinta per il domani. Essere antimoderni non significa però essere necessariamente premoderni, bensì solo prendere atto che il progetto razionalistico degli ultimi secoli è giunto al capolinea.

6. I neopaternalisti. In molti vagheggiano un governo che protegga e rassicuri, da ogni punto di vista: economico, epidemiologico, della sicurezza personale. E che, in virtù del fine, possa anche mettere fra parentesi le libertà fondamentali e i diritti umani. Una democrazia controllata e guidata, «illiberale», o addirittura un nuovo dispotismo soft all'orientale sul tipo di quello cinese. Perché il liberalismo è obsoleto, come ha detto Putin. E la libertà esige responsabilità, e quindi fatica.

7. I conservatori. Sembravano un reperto del passato, e invece potrebbero trovare una nuova linfa vitale.

Liberali e anche liberisti, ma all'interno di una comunità politica coesa e unita da valori comuni e dall'amore per la Patria; ecologisti ma nel senso della cura e manutenzione continua della propria casa (oikòs), non in quello dei Grandi Progetti; scettici e disincantati sulle umane vicende ma sensibili al trascendente; aperti al futuro ma convinti che esso debba maturare ed evolversi dalle esperienze del passato. Essi, in poche parole, sembrano porsi al crocevia delle altre tendenze, moderandole e umanizzandole. Che sia loro il futuro?

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