Roberto FestorazzI
Stamane, Bolaffi batte all'asta un carteggio inedito di Gabriele D'Annunzio, diretto al prefetto Giovanni Rizzo, l'«occhiuto carceriere» (secondo la definizione dello stesso Vate) che Mussolini mise alle costole del poeta, per controllarlo, e riferirne azioni, pensieri, annusando con fiuto da segugio anche tra le lenzuola del Vittoriale. Rizzo era pure incaricato di difendere il Comandante dai seccatori, cercando di allettarlo con le più incredibili proposte, come le speculazioni sulle emissioni filateliche della Reggenza del Carnaro, l'effimero governo fiumano di D'Annunzio. Il messinese Rizzo giunse sulle rive del Garda nel settembre del 1923, per indagare su un furto di gioielli, e da allora non si scollò mai più dalla Villa di Cargnacco e dal suo inquieto padrone. Ne sortì un rapporto, per definizione ambiguo, con D'Annunzio che, se da un lato tentava di ingraziarsi il suo guardiano, dall'altro lo manipolava per far giungere a Mussolini i messaggi che gli premevano. Il Comandante, così, si prendeva gioco del suo don Giovanni di Sicilia, che, in segno di deferenza, lo omaggiava con garofani rossi e agrumi. Il materiale che Bolaffi manda all'asta, comprende 83 lettere autografe, datate tra il 1923 e il '37, e valutate 20 mila euro. Alcune missive, del 1924, si occupano della misteriosa sparizione del manoscritto della Vergine delle Rocce, in seguito ritrovato su un treno. D'Annunzio commenta: «Tutto quel che mi tocca si converte in favola incredibile».
Parte dell'epistolario tradisce l'impazienza del Vate, per la dorata segregazione al Vittoriale. Nel febbraio del '28, sbotta: «Ella più volte mi ha dichiarato d'essere qui a mia disposizione, anzi ai miei ordini. S'Ella fosse qui soltanto per sorvegliarmi come individuo pericoloso' saprei protestare con la mia ben nota energia contro la sua presenza». In altre lettere, affiorano i rapporti tesi con Gabriellino, «figliolo degenere», mentre l'amante Luisa Baccara è definita «l'ammirevole Luisa» o «fior di pazienza». Alla morte di Arnaldo Mussolini, fratello minore del Duce, il 21 dicembre 1931, l'Imaginifico scrive: «Manderò una parola a Benito, ma la mia parola è vana».
Bisogna peraltro ricordare che alla vigilanza affidata al prefetto Rizzo se ne affiancò una seconda, di emanazione diretta del Partito fascista, dalla metà del 1935. Fu Achille Starace, fedele interprete dei desiderata del Duce, a convocare a Roma l'incredulo federale di Brescia, Gianni Comini, per trasmettergli quest'ordine: il Comandante stava manifestando una pericolosa insofferenza nei confronti del regime, incerto addirittura se appoggiare la guerra d'Etiopia. Ergo, bisognava blindare l'anziano poeta dentro un'armatura ancora più soffocante. Comini fece il possibile per non sottrarsi all'incarico, ma riuscì a cattivarsi la simpatia del Vate.
La sera del 1° marzo 1938, toccò proprio al federale ricevere la telefonata con la quale il prefetto Rizzo gli annunciava la morte del genio. Nel suo diario, Comini annota, sarcastico, la modalità: «Solita voce del sud rauca e stanca, un po' strascicata e catarrosa. Tono burocratico e impersonale; come comunicare il trapasso del gatto di casa».
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