Al cinema c'è "Diabolik": i pregi e i difetti del film

La trasposizione cinematografica del noto fumetto lascia a desiderare quanto a ritmo e pathos, ma tiene desta l'attenzione grazie a una Eva Kant che sembra uscita da un colossal hollywoodiano

Al cinema c'è "Diabolik": i pregi e i difetti del film

"Diabolik", l'iconico personaggio nato dalla penna delle sorelle Giussani nel lontano 1962, tenta il salto dal fumetto al grande schermo. Ad assumersi il rischio di accompagnarlo nell'impresa sono i fratelli Manetti, i quali firmano un adattamento del terzo albo della serie originale, “L'arresto di Diabolik”, lo stesso in cui il celebre ladro incontra l'amata Eva Kant.

“Diabolik” è un film che a livello narrativo si compone di una prima parte in cui, complice un diamante rosa, si forma la suddetta coppia criminale e di una seconda, in cui l’obiettivo è svaligiare il caveau di una banca.

I Manetti Bros, messa da parte la loro rinomata ironia, si sono fatti seri ma non è bastato a rendere il racconto più autorevole. Hanno peccato d'ingenuità pensando forse che, per omaggiare il personaggio e, al contempo, il cinema di genere italiano anni ’60, fosse sufficiente disseminare di elementi iconici l’allestimento d’epoca. La cura dei dettagli visivi è encomiabile, ma a nulla vale se inficiata dalla scelta erronea e consapevole di dotare il film di un registro tanto gelido. Il tono volutamente distaccato rende difficilissimo il coinvolgimento. La narrazione ripetitiva e il ritmo dilatato, inoltre, minano la piacevolezza della visione. Si fosse scelto di percorrere appieno la via del kitsch, l’ensemble sarebbe stato più godibile, invece che quasi soporifero. In aiuto, nel tenere desta l'attenzione, ci sono fortunatamente gli outfit di gran classe di una Miriam Leone mai così bella, (nonché unica interprete credibile del film). Il trucco e parrucco alla Virna Lisi, uniti all’allure sexy dell’attrice, rendono la sua Eva Kant perfetta per una pellicola di stampo hollywoodiano. Il suo algido fascino e i modi da femminista ante litteram funzionano a meraviglia, ma è anche vero che finiscono per accentuare il provincialismo e l’artificiosità di tutto il resto della messa in scena.

Laddove il pacioso Mastandrea è l’attore giusto per incarnare l’ispettore di polizia moralmente integerrimo, a essere insolitamente fuori parte è proprio chi impersona Diabolik, Luca Marinelli, ingessato stavolta in una recitazione stantia e a tratti catatonica. Una cosa è replicare la freddezza del criminale e il suo essere notoriamente di pochissime parole, un’altra è darne un’inedita versione “esanime”. Nessun guizzo luciferino nello sguardo, né alcun moto di autentica passione nei confronti della bionda coprotagonista (risibile il bacio finto e immobile da fotoromanzo d’antan).

Se “Diabolik” appare datato non è perché ispirato ad un albo del 1963, bensì per il suo essere un film oggettivamente inadatto a intrattenere il pubblico contemporaneo a causa del flemmatico incedere della trama e dell’enfasi maldestra con cui sono pronunciati alcuni dialoghi. La cura nella salvaguardia di caratteristiche entrate nell'immaginario collettivo si accompagna purtroppo a una costruzione del senso del pericolo troppo sciatta.

Il risultato è al di sotto delle aspettative.

Prevedibile e privo di brivido, il film sul "re del terrore" sciorina un’intera antologia di stereotipi e rischia di diventare una parodia involontaria.

Incredibilmente, nonostante tutto, del film sono già in lavorazione due sequel.

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