Luca Guadagnino che, ormai da vari anni, è in pieno fermento creativo, qui al Lido presenta il film documentario sul celebre «calzolaio» campano, Salvatore - Shoemaker of Dreams che uscirà in sala con Lucky Red nel 2021, dall'autobiografia appena riedita da Electa, ma anche un cortometraggio girato nella sua Sicilia dopo il lockdown, Fiori, fiori, fiori!, ambedue montati dall'amico e collaboratore Walter Fasano. In attesa di vedere la sua prima serie tv, We are who we are, che sarà presentata al Festival di San Sebastián dove Guadagnino è presidente di giuria e dal 9 ottobre sulla nostra Sky Atlantic.
La storia di Salvatore Ferragamo, nato nel 1898 a Bonito a 100 chilometri da Napoli, undicesimo di 14 figli, è incredibile. Nel 1909 fa la fame nel capoluogo partenopeo ma impara a fare il calzolaio, apre il primo negozio a Bonito nel 1912, ma subito dopo emigra negli Stati Uniti dove studia anche l'anatomia del piede e nel 1920 registra il suo primo brevetto. Tre anni dopo inizia a disegnare scarpe per il cinema e nel 1925 inaugura il negozio a Hollywwod, in fila ci sono star del calibro di Mary Pickford, Douglas Fairbanks, Gloria Swanson, Rodolfo Valentino, Lilian Gish, Jean Harlow, Greta Garbo fino poi a Marilyn Monroe. Bellissima su questo l'intervista a Martin Scorsese. Nel 1926 torna in Italia, si stabilisce a Firenze e il futurista Lucio Venna gli disegna il marchio. Non lo ferma la crisi del 1929 perché, dalla sua, ha l'originalità di progetti unici, scarpe appunto futuriste ma comode. Tutto questo c'è nel corposo film di due ore di Luca Guadagnino che con la Ferragamo ha già girato (e girerà) dei cortometraggi che si fa fatica a chiamare pubblicitari.
Ci sono dei parallelismi tra l'affermazione di Ferragamo, dalla provincia italiana più sperduta a Hollywood, e la sua?
«Non penso di aver fatto un ragionamento autobiografico, non mi permetterei mai. Però certo posso dire che Ferragamo ha vissuto la sua vita quasi sempre come un outsider e si e visto sempre fuori dal sistema in cui era. In questo senso, nel cinema, mi sento come lui».
Che altro l'ha attratta della storia?
«Ferragamo realizza in segreto le scarpe a Bonito, va a Hollywood in costante eccentricità e si trasforma in una figura titanica di creatore. Erano questi elementi per me irresistibili, al di là della bellezza assoluta che non credo che esista. È un uomo che ha rischiato tutta la vita, ha fallito ma non si è mai sentito vittima dei suoi fallimenti senza però essere colpito da hybris dei suoi successi».
Che tipo era?
«Un uomo grosso con la faccia virile ma delicato nei momenti in cui tocca i piedi delle sue clienti e crea calzature dal nulla. Direi, sublime grandezza e umiltà creatrice».
Grazie a lei i giovani lo conosceranno.
«Gli adolescenti sanno benissimo chi è. Ad esempio nel mondo del rap Ferragamo è un mito tanto che loro indossano cinture e altri oggetti che portano il suo nome».
Quali sono gli altri aspetti che l'hanno interessata?
«L'idea che aveva della famiglia e il coinvolgimento delle persone che cercava di potenziare. Se fosse vivo oggi sarebbe felice di promuovere un giovane talento per portare avanti la sua eredità».
Il lockdown ha influito sul film?
«Era quasi finito, mancava il lavoro sul suono che abbiamo terminato dopo».
Mentre con il corto Fiori, fiori, fiori! l'ha girato subito dopo la fine del confinamento.
«Quando ho scoperto che il codice Ateco delle case di produzione consentiva di muoversi sono partito con un IPhone e un iPad verso i luoghi della mia infanzia. In Sicilia ho iniziato a vedere che la primavera era andata avanti nonostante tutto e sono rimasto colpito dalla miriade di fiori, da qui il titolo di questo mio film molto personale. Sono contento di presentarlo con il documentario: sono entrambi film sui padri».
Cambierà il modo di raccontare le storie?
«Non lo so anche se cerco di immaginarmi come fare certe scene di amore e di passione che ho in mente per il prossimo lavoro. Ma in qualche modo risolverò».
Si tratta del sequel di Chiamami col tuo nome?
«Sì, ci sto lavorando anche se è presto parlare di set».
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