Ecco la scala reale di film che l'Italia gioca a Venezia

I D'Innocenzo in noir, i "freaks" di Mainetti, il visivo Frammartino, Martone biografico, Sorrentino intimo

Ecco la scala reale di film che l'Italia gioca a Venezia

È forte e convincente, almeno sulla carta, la proposta dei cinque film italiani selezionati in concorso dal direttore Alberto Barbera, con il suo comitato di esperti, alla 78ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica che si terrà a Venezia dall'1 all'11 settembre. Tanti, troppi? In era pandemica tutto è permesso, anche se non accadeva dal 1984, ma al festival di Cannes i titoli francesi erano addirittura sette... Ecco allora questa sorta di scala reale del cinema italiano in cui è presente tutto l'arco costituzionale dei nostri autori, dalle giovani promesse ai venerati maestri, senza per fortuna passare dai «soliti stronzi» di arbasiniana memoria. Cinema d'autore e popolare insieme. Fuori i nomi: i fratelli D'Innocenzo, Michelangelo Frammartino, Gabriele Mainetti, Mario Martone, Paolo Sorrentino.

Iniziamo dai fratelli più amati (da me) e anche odiati di tutto il cinema italiano, perché giocano sul loro essere personaggi: Damiano e Fabio D'Innocenzo. Autori dell'esplosivo esordio La terra dell'abbastanza, si sono ripresi in questi anni, ora che ne hanno biblicamente 33, tutto ciò che era loro, ossia una caterva di idee e sceneggiature chiuse nel cassetto dei rifiuti del cinema italiano rassicurante e medio (al festival c'è anche La ragazza ha volato di Wilma Labate, firmato da loro). Arrivano a Venezia per la prima volta con America Latina. I due film precedenti erano stati a Berlino (Favolacce ha vinto l'Orso per la migliore sceneggiatura): «Abbiamo inseguito con tenacia questo palcoscenico e ora, con responsabilità e umiltà, ci rimettiamo allo sguardo degli spettatori», hanno dichiarato. Elio Germano interpreta un dentista quarantenne la cui vita viene sconvolta da una scoperta nella cantina di casa. Il turbamento è così forte che gli impedisce di confessare l'accaduto alla famiglia. Chissà, trattasi forse di un thriller dell'anima, anche se regna il mistero su questa produzione di Lorenzo Mieli per The Apartment, Vision Distribution e Le Pacte. Non s'è vista alcuna immagine, solo una fotografia del protagonista, Germano che sembra il generale Kurtz/Marlon Brando in Apocalypse Now.

Anche Gabriele Mainetti, classe 1976, è un enfant prodige del nostro cinema che ha faticato per vedere realizzato il suo primo film, Lo chiamavano Jeeg Robot che, oltre a essere stato un buon incasso nel 2015, con oltre 5 milioni, ha anche avuto l'onore di entrare nell'immaginario collettivo. Onore e onere. Infatti il suo secondo film Freaks Out che vedremo al festival e dal 28 ottobre al cinema, complice certo la pandemia ha atteso anni per uscire dopo un lungo e meticoloso lavoro di post produzione. D'altro canto la storia scritta dal regista con Nicola Guaglianone, che firma il soggetto, è da far tremare le vene e i polsi per la ricostruzione storica. Siamo a Roma, nel 1943, e Matilde (Aurora Giovinazzo), Cencio (Pietro Castellitto), Fulvio (Claudio Santamaria), Mario (Giancarlo Martini) vivono come fratelli nel circo di Israel (Giorgio Tirabassi). Quando questi scompare, i quattro «fenomeni da baraccone» con poteri tutti loro restano soli nella città occupata dai nazisti che se la vedranno brutta. «Freaks Out - ha detto il regista che, oltre ad aver scritto le musiche, ha prodotto il film con Andrea Occhipinti e Rai Cinema - nasce da una sfida: ambientare sullo sfondo della pagina più cupa del Novecento un film che fosse insieme un racconto d'avventura, un romanzo di formazione e una riflessione sulla diversità». E viene da pensare un po' al cinema di Tarantino che ha cercato di cambiare la storia dei nazisti in Bastardi senza gloria.

Mentre per il cinema di Michelangelo Frammartino si fatica a trovare un accostamento, visto il personalissimo approccio di questo autore vicino alle arti visive, con studi alla Scuola Civica di Milano e Architettura al Politecnico. Esordiente nel 2003 con Il dono, torna al lungometraggio nel 2010 con Le quattro volte e ora con Il buco che narra un'epopea sull'altopiano del Pollino, in Calabria, dove gli speleologi del Gruppo piemontese scopriranno nel 1961 la grotta più profonda del Sud d'Italia e una delle più profonde del mondo, l'Abisso del Bifurto.

A proposito di Sud, ecco gli ultimi due film, partenopei doc, che condividono oltre al protagonista Toni Servillo, l'aura dei maestri. Parliamo di Qui rido di Mario Martone e di È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, premio Oscar. Sono due storie che rifanno i conti con l'essere napoletani dei due registi. Martone, in questa produzione Indigo con Rai Cinema, dal 9 settembre in sala, gioca la carta storica del racconto degli ultimi anni di vita del commediografo e attore Eduardo Scarpetta in chiave quasi sovranista partenopea. È infatti la figura di Gabriele D'Annunzio a uscire bistrattata per il processo scaturito dalla causa che il Vate (interpretato da Paolo Pierobon) fece a Scarpetta, autore di Il figlio di Iorio, per plagio e contraffazione del suo La figlia di Iorio. Primo processo in Italia sul diritto d'autore, con prestigiosi periti di parte, Salvatore di Giacomo (Roberto De Francesco) per D'Annunzio, e Benedetto Croce (Lino Musella) per Scarpetta, vide la vittoria di quest'ultimo che però, contestualmente, si ritirò dalle scene.

Il cinquantunenne Sorrentino torna invece nelle atmosfere della sua Napoli di gioventù, come nel capolavoro d'esordio L'uomo in più, per un racconto intimo e autobiografico - si vede un ragazzino che vorrebbe fare cinema dire: «La realtà non mi piace più, è scadente» - ispirato alla perdita dei suoi genitori per una fuga di gas mentre lui era andato allo stadio a vedere Maradona. «Da ragazzi, il futuro ci sembra buio.

E invece il futuro è là dietro. Bisogna aspettare e cercare. Poi arriva. E sa essere bellissimo. Senza trucchi, questa è la mia storia e, probabilmente, anche la vostra», ha detto Sorrentino su questo suo primo film targato Netflix.

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