Se lo si osserva da un certo punto di vista, Il nome della rosa (1980) di Umberto Eco rappresenta, contemporaneamente e contraddittoriamente, sia la dimostrazione riuscita dei teoremi narratologici, concepiti in seno al Gruppo 63 di cui Eco è stato parte, che la presa d'atto di un loro stesso, vistoso fallimento. Posto in questi termini, il discorso evidenzia subito un'anomalia strutturale, ma dipende da dove ci si ferma a osservare quel romanzo, impostosi all'attenzione dei lettori e dei critici come uno dei risultati di maggiore affidabilità dentro un panorama di anni che non conteneva quasi per niente opere da etichettare sotto la formula del romanzo storico, se si esclude La Storia di Elsa Morante (1974), Il quinto evangelio di Mario Pomilio (1975; con innumerevoli distinguo), Pontificale in San Marco di Elio Bartolini (1978) e La strada francesca di Nino Casiglio (1980).
Nessuno si aspettava che Eco potesse partorire un romanzo storico: genere principe della narrativa ottocentesca, ampiamente osteggiato però dai teorici dello sperimentalismo per un difetto di origine che non a caso era quello di affidarsi alla costruzione romanzesca, alla trama, alla compattezza dei personaggi, elementi che, per un naturale processo empatico, avvicinano il prodotto letterario a un target decisamente popolare di lettori. Già la scelta dell'argomento il medioevo e per giunta gli ambienti dei chierici spostava il discorso verso un esercizio di rivisitazione di quei pronunciamenti che solo una quindicina/ventina d'anni prima avevano visto Eco dibattere in prima persona al convegno di Palermo (1963) e a quelli successivi di Reggio Emilia e di La Spezia, nel 1964 e nel 1966. D'altra parte, in alcune pagine di Apocalittici e integrati (1964) il testo cruciale per comprendere non tanto le trasformazioni negli anni del boom, piuttosto le reazioni di una certa parte di intellettualismo italiano posto di fronte a quelle trasformazioni risulta molto chiaro il giudizio di Eco sulla midcult, la cultura media dell'uomo medio, e altrettanto esplicita è l'analisi sui mezzi di comunicazione che accompagnano e incentivano il successo della midcult. Basti leggere la celebre indagine sulla Fenomenologia di Mike Bongiorno, che appare una prima volta sulla rivista Pirelli del 1961 e poi in Diario minimo ('63).
Avendo posto a bersaglio l'idea di una letteratura nazional-popolare, da cui peraltro diventava difficile disgiungere la dimensione epica del narrare che da essa scaturiva, è facile immaginare le reazioni dell'establishment universitario ed editoriale al momento in cui arriva in libreria un romanzo d'ambientazione storica come Il nome della rosa. Ma le contraddizioni non finiscono qui. A suscitare dubbi c'è anche la volontà di mescolare alla formula del romanzo storico - del «componimento misto di storia e invenzione», aveva scritto Alessandro Manzoni, dunque di documentazione e di immaginazione - i trucchi del romanzo giallo: un'alchimia eseguita con gran talento, facendo intravedere i confini a cui si sarebbe potuto spingere il territorio del post-moderno (citazioni, metaletteratura, compilazione enciclopedica), ma anche in questo caso con il sospetto di una digressione, di un camminare a gambero, essendo stato considerato il giallo, dai teorici della neoavanguardia, un sottogenere narrativo e per di più uno degli effetti principali del passaggio da una dimensione artigianale a una dimensione industriale dell'editoria italiana. C'è di più. Per questioni puramente narratologiche, il giallo esige la perfetta chiusura della vicenda narrata. Esige cioè che ogni componente del racconto, prima dell'ultima pagina, sia collocata nel posto che le si addice: chi conduce l'indagine all'individuazione del colpevole e il colpevole sia assicurato alla giustizia, a meno che non si intenda operare secondo un'ironia destrutturante, come fa Carlo Emilio Gadda nel Pasticciaccio (1957), in cui sconfessa ogni tipo di paradigma, a partire dal più rilevanti tra essi, cioè la necessità di concludere la storia. Gadda non obbedisce a questa regola e il suo romanzo - l'indagine del commissario Ingravallo - rimane nel limbo delle questioni aperte. Il dato curioso, però, è un altro: la scelta di scrivere un romanzo giallo (la scelta di obbedire alle regole che compongono la conclusione finale dei fatti) arriva da chi, come Eco, proprio un decennio e mezzo prima aveva teorizzato la cosiddetta «opera aperta» trovando la formula esatta sul caso Gadda.
L'inchiesta intorno al delitto, dunque, che si innesta sul tronco maestro del romanzo storico: in questo modo Eco conquista un successo clamoroso nei primi anni '80, si aggiudica il Premio Strega e sembra quasi, il suo, un gesto di chi intenda rivisitare (per non dire sconfessare), in maniera nemmeno tanto nascosta, i dogmi professati negli anni '60, secondo una strategia d'arretramento che si manifesta più o meno con gli stessi caratteri anche in Sebastiano Vassalli. Anche qui, infatti, ci troviamo di fronte a un debutto nelle file del Gruppo 63 e successivamente a una forma d'abiura pronunciato forse in maniera più aperta e chiara rispetto a Eco nei confronti dell'intera teoresi sperimentale al fine di approdare al vero e proprio romanzo storico, La chimera (1990), manzoniano sia per il rispetto alla formula del «componimento misto di storia e invenzione», sia per l'ambientazione in un'epoca come il Seicento, il secolo per eccellenza dei delitti e delle ingiustizie. Sembra quasi di capire che Eco e Vassalli siano due fuoriusciti, costretti a voltare le spalle alle frequentazioni giovanili in nome di un altissimo traguardo letterario, conseguito solo a prezzo di un cambio di rotta. Questo dato getta un'ombra molto lunga e profonda sulla capacità di reggere il confronto, da parte dello sperimentalismo, con le frontiere dei tempi nuovi, come sono stati la fine degli anni '70 e l'inizio di un periodo passato alla cronaca come l'epoca del riflusso. Difficile affermare che l'operazione effettuata da Eco (e poi da Vassalli) sia un indizio anticipatore di quest'ultima etichetta.
Tuttavia, almeno in apparenza, ne porta i segni e la dice lunga sulla capacità di produrre narrativa di qualità da parte di un movimento che, pur volendo rinnovare gli statuti letterari, ha inteso agire obbedendo a rigidi schemi ideologici e tutto sommato in conflitto con i tempi.
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