Aveva raccontato la morte tante volte, diceva che prima o poi tutti noi «si guarisce da quella bellissima malattia che è la vita». Di questa splendida malattia Fabrizio De André è guarito l’altra notte alle 2.30, nella sua stanza all’Istituto milanese dei tumori, le mani strette in quelle della moglie Dori e dei figli Luci e Cristiano. Quattro mesi dopo quella di Lucio Battisti, un’altra improvvisa assenza rende più povero e meno nobile il piccolo mondo della canzone. Se n’è andato il più grande di tutti, il poeta schivo che Bob Dylan invidiava e che David Byrne onorava, il cantore dei perdenti «che - diceva - sono loro, i più vicini al punto di vista di Dio».
Se n’è andato e ora vengono in mente quei suoi primi versi nutriti di Pavese e di liceo, «la morte verrà all’improvviso/ avrà le tue labbra e i tuoi occhi», musica di Brassens. O quelli che scrisse quando morì Tenco, «lascia che sia fiorito/ Signore, il suo sentiero»: era il gennaio ’67 e me li disse in un orecchio al funerale di Luigi, livida mattina piemontese di nebbia e di gelo. Ritrovo quelle sue strofe antiche, eravamo poco più che adolescenti, e penso che è un bel conforto, sapere che queste e molte altre continueranno a restituircelo: la poesia ha questo di grande, che i suoi poeti non li lascia morire.
Lui cominciò a frequentarla a diciotto anni, «poi - sogghignava - ha ragione Croce: quelli che continuano a scrivere versi si dividono in poeti e in cretini». Ma non erano da cretino, versi come questi: «Ti diedero lavoro in un gran ristorante/ a lavare gli avanzi della gente elegante/ ma tu dicevi: il cielo è la mia unica fortuna/ e l’acqua dei piatti non rispecchia la luna». E così «tornasti a cantar storie nelle strade di notte/ sfidando il buonumore delle tue scarpe rotte».
Anche lui aveva provato altri mestieri, da figlio di ricchi che preferisce sbrogliarsela da solo: l’insegnante, il banjoista jazz, l’impiegato. Ma nulla di tutto ciò rispecchiava la luna: per quello ci voleva la chitarra. E così fu il primo dei cantautori genovesi, era appena il ’58, a uscire su disco, anche se fu l’ultimo a diventare famoso: era troppo controcorrente, nella città più ammodo d’Italia, quella sua poesia di battone, assassini e soldati ammazzati, che nasceva dagli emarginati dei caruggi piuttosto che dalle villette della Genova bene.
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Sentii La ballata dell’eroe e Bocca di rosa, un giorno nella scuoletta dove faceva il travet, a 90mila lire al mese, per mantenere se stesso, la moglie Puny il figlio Cristiano e la suocera. E non ebbi dubbi: «Geniali, ma invendibili». Che cantonata: qualche tempo dopo Mina rilanciò in tivù La canzone di Marinella, ispirata da una bella di notte sgozzata da un bruto, e mi ritrovai amico di una star. Era il 1968. «Sapessi che personaggio, Mina - raccontava lui -. Canta anche quando parla, con i cambi di tonalità e tutto quanto». Era fatta: un album di Fabrizio, Tutti morimmo a stento, sfrecciò primo in classifica, il successivo, Volume III, gli subentrò. Lui viveva il successo con una sorta d’apprensione imbarazzata, in sala d’incisione, un falansterio grigio lungo la Tiburtina, dimenticava i testi scritti da lui, e bisognava suggerirglieli: «Quando hanno aperto la cella/ freddo pendeva Miché». Di cantare in pubblico, poi, non aveva ikl coraggio: gli offrivano più soldi che ad Aznavour e lui no, dovemmo attendere il ’75 per applaudire il suo primo tour con Grillo e Finardi come supporter.
Anche se, così lucido nel tradurre in poesia la realtà, lui ignorò, fino all’ultimo, di essere il grande musicista che era. «La mia è una balbuzie melodica», diceva. E invece mise a segno imprese impossibili: con Mauro Pagani, in Creuza de mâ, sposò la lingua della sua liguria con ritmi e suoni turchi, arabi, macedoni. In Le nuvole affiancò tarantella e jodel, opera buffa e ’800 viennese. E non meno ardite parentele inventò, con Piero Milesi, in Anime salve, il suo album-testamento: «Dopo tutto - mi disse, nel farmelo ascoltare - l’emarginazione non è una disgrazia: si è più limpidi, meno contaminati dal potere».
Era questa la laicissima religiosità cui lo conduceva la poesia, una religiosità da eresiarca.
12 gennaio 1999
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