Il falsetto che fece ballare tutto il mondo Tornano i Bee Gees (solo in documentario)

Barry Gibb: «Del nostro gruppo e di quell'epoca mi restano ricordi fantastici»

Il falsetto che fece ballare tutto il mondo Tornano i Bee Gees (solo in documentario)

Tutto cominciò all'isola di Man appena finita la guerra. Tre fratelli e una sola voce - un falsetto inimitabile - avrebbero fatto cantare e ballare generazioni di innamorati e non solo. Davanti a loro, un nome che era una sigla. Un acronimo. Bee Gees. Ovvero B.G. scritto però per esteso, come l'anglofonia l'avrebbe pronunciato. Quella sigla stava per Brother Gibb e la G aveva un curioso plurale, appunto perché erano in tre. Barry, il più grande. Robin e Maurice, in mezzo. Una decina di anni dopo arrivò pure Andy, che stava per unirsi al gruppo quando, a trent'anni, se lo portò via un cuore matto, non adeguatamente esorcizzato da una canzone - Arrow through the heart - che lui stesso aveva scritto. E sapeva di presagio.

Il destino volle che se ne andassero al contrario. Prima il più giovane. Poi i due gemelli, in tempi diversi come le loro fisionomie. Oggi di quell'epopea resta il barbuto Barry, 74 anni (foto), con un figlio d'arte, nonno di due nipoti e una tonnellata di nostalgia, cullata in quella Miami dove oggi vive e negli anni Settanta vide approdare tre voci promettenti, oscurate dai Beatles. E al 461 di Ocean Boulevard, dove Eric Clapton aveva messo a punto un doppio album da brividi con tanto di foto in copertina, sarebbero nati anche Main course e quella Jive talking ispirata dal rumore cadenzato delle ruote del bus sulle giunture dell'asfalto.

Barry è pure la voce guida e il complice di Frank Marshall, il produttore di Jurassic world, Indiana Jones e soprattutto Chi ha incastrato Roger Rabbit, che firma il documentario The Bee Gees: How can you mend a broken heart, dal 14 dicembre in edizione originale sottotitolata su Prime video, Apple tv e Google play. «Un peccato, avrei tanto voluto che il pubblico lo vedesse sul grande schermo. Mi mancherà».

Marshall ci è rimasto male e non ne fa mistero ma il 2020 è figlio di una cattiva stella e un dio minore. La nostalgia di Barry e il dispiacere del regista non devono ingannare. Il film è bello anche se è sempre amaro parlare di chi non c'è più. E nel doc sono più quelli che ci hanno lasciato di coloro che sono fra noi. È bello il tono, lontanissimo da lacrime e rimpianti. Come se fossero ancora tutti qui. «Ho avuto la totale collaborazione di Barry, prezioso e umile. Il film riflette i suoi veri sentimenti e il dolore di essere rimasto solo» aggiunge ancora Marshall ma «that's life» conclude Barry negli ultimi fotogrammi. «A me restano fantastici ricordi, ognuno ha i suoi. Robin e Maurice ne avrebbero di diversi. Abbiamo avuto tre vite differenti, non la stessa».

E quella Stayin'alive, intonata da Barry Gibb. Solo. Sul palco di Glastonbury, tre anni fa. Sembra la colonna sonora di se stesso. Eppure, all'epoca, fu tutt'altro. «Negli anni Sessanta ero un ragazzo, fan dei Bee Gees come tanti altri. Amavo la loro musica e l'ho amata anche nei decenni successivi, quando uscì Saturday night fever. Ho voluto raccontare la loro parabola, fatta di gloria e normalit.

È una storia molto dolce» confessa Marshall con un sorriso: «Una celebrazione della loro fraternità e allo stesso tempo dell'eredità di Robin e Maurice. Ho guardato al lavoro di Nigel Sinclair sui Beatles perché mi era piaciuto ma ho tentato di scrivere sui Bee Gees una pagina definitiva».

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