Il feroce assedio di Sarajevo raccontato da chi c'era

In quattrocento pagine l'orrore della guerra in Bosnia. E tutto l'odio che cova ancora sotto la cenere della pace

Il feroce assedio di Sarajevo raccontato da chi c'era

«Una volta dentro bisogna diventare bestie per scoprire di cos'è capace la razza umana () Le pareti d'argilla nera sudano e fumano. E i corpi sputano umido e sudore piegati sotti i basti () Gli uomini stringono la sigaretta tra i denti, come gli asini da soma il morso». Così viene descritto in Maledetta Sarajevo il tunnel che ufficialmente non esiste scavato sotto la pista dell'aeroporto. Un budello sotterraneo di 760 metri, martellato inutilmente dall'artiglieria serba, che è la vena giugulare della città nei tre anni di assedio. Il canale di rifornimento segreto dove entrano armi, munizioni, il carburante prezioso come l'oro, viveri e generi di prima necessità della borsa nera per la sopravvivenza dei fantasmi di Sarajevo. Ed escono, dalla trappola della prima guerra in Europa dopo il 1945, qualche ferito, pochi profughi grazie a mazzette di marchi tedeschi e pure l'ambasciatore americano.

Nel maggio del 1995, verso il tragico epilogo della guerra in Bosnia, mi infilo nel tunnel scavato dalle talpe di Allah assieme a Marzio Mian, coautore con Francesco Battistini di Maledetta Sarajevo (Neri Pozza, euro 19). Quattrocento pagine scritte da giornalisti di razza sul carnaio scoppiato, trent'anni fa, nel cuore della Jugoslavia di Tito che si sgretola alle porte di casa nostra.

«Il Vietnam d'Europa» recita il sottotitolo, ma il libro non è solo un resoconto di guerra. Le pagine scorrono immergendoti nel sangue versato a fiumi e pure nella storia e psicologia dei protagonisti sia boia, che vittime. Il doctor K è Radovan Karadzic, lo psichiatra, poeta e fautore dell'incendio di Sarajevo, ducetto politico dei serbi di Bosnia durante l'assedio e pure dopo, per qualche anno, nonostante il mandato di cattura del Tribunale de L'Aja sull'ex Jugoslavia per genocidio e crimini di guerra. Doctor K, lo chiamano così i secondini del supercarcere dell'isola di Wight, dove sconta l'ergastolo. Lo scoop del libro sono le risposte scritte, disseminate fra le pagine, e inviate da Karadzic agli autori proprio dalla sua cella di due metri per tre. Il genocidio di Srebrenica lo nega ancora, ma qualche rivelazione si mescola a frasi a effetto, che fotografano perfettamente il punto di non ritorno del 1992 a Sarajevo. «A un certo punto ci accorgemmo che nemmeno i gatti dei musulmani andavano d'accordo con i gatti dei serbi - scrive il doctor K - Non potevamo permettere che i turchi ci tagliassero la gola».

La galleria degli orrori serbi è ben documentata: da Arkan, il capo delle Tigri, paramilitari che massacrano i civili a Bjielina in favore di macchina fotografica al ponte della morte di Visegrad, dove i tagliagole lanciano i figli nel vuoto davanti alle madri facendo tiro a segno con i corpi portati via della corrente della Drina. Se i serbi si sporcano le mani di sangue più di altri, croati e musulmani compiono pure le loro porcherie. Vicino a Sarajevo c'è il lager di Celebici, dove le vittime di torture, stupri e giochi sadici sono serbe. Slobodan Praljak, croato dell'Erzegovina con tre lauree in ingegneria, filosofia e arte drammatica dà l'ordine di frantumare a colpi di cannone il ponte di Mostar. Il gioiello architettonico turco era composto solo da pietre, ma è carne viva quella dei prigionieri musulmani «in uno stato terrificante: scheletrici, la pelle butterata, gli occhi sbarrati». I più fortunati muoiono subito colpiti dalle raffiche che ogni tanto le guardie croate sparano a casaccio nel campo di concentramento di Dretely. Altri sono condannati a scavare trincee allo scoperto fino a quando non crollano per sfinimento o per un colpo di mortaio.

Nell'entroterra di Mostar il battaglione al Mujaheddin composto da volontari arabi e afghani della guerra santa non sono da meno e filmano compiaciuti le esecuzioni dei soldatini croati che si arrendono tremanti alzando le mani chiedendo pietà in lacrime.

Nessuno in Bosnia è senza peccato e può scagliare la prima pietra, ma sicuramente i serbi vengono demonizzati in abbondanza e non mancano insopportabili discriminazioni. I bambini di Sarajevo colpiti da schegge o cecchini valgono di più sui media internazionali e di conseguenza agli occhi dell'opinione pubblica del ragazzino serbo con le gambe tranciate da un colpo di mortaio. Un capitolo tutto da leggere è «il pane altrui» sui profughi in fuga dal sanguinoso baratro jugoslavo che «non ci facevano paura».

Maledetta Sarajevo arriva fino al fuoco che cova sotto la cenere della Bosnia di oggi con l'attuale leader dei serbi, Milorad Dodik, che

per gli autori è un mini-Putin. In realtà era un pupillo americano sedotto e abbandonato, come Slobodan Milosevic con la pace di Dayton, che dopo 1.395 giorni e 11.541 morti scrive la parola fine all'assedio di Sarajevo.

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