Il film del weekend: "Blade Runner 2049"

Villeneuve espande l'universo del film originale con coerenza, in equilibrio tra omaggio al passato e rivisitazione personale

Il film del weekend: "Blade Runner 2049"

Realizzare il seguito di "Blade Runner", ossia del film di fantascienza più amato e famoso di tutti i tempi, misurandosi con una delle eredità più pesanti della storia del cinema era un'impresa ardua.

Ad assumersi un tale rischio è stato uno dei cineasti migliori dei nostri tempi, Denis Villeneuve, (già regista di "Arrival"). La notizia è che il suo "Blade Runner 2049" non delude: rende omaggio alla pellicola di Ridley Scott e, lungi dall'essere una mera operazione nostalgia, ne esplora i temi cardine da nuove prospettive. Naturalmente l'impatto rivoluzionario che ebbe il film del 1982 non è replicabile, ma questo nuovo è un thriller esistenziale complesso e affascinante, incredibilmente coerente con l'universo visivo e lo spirito dell'originale.
Villeneuve imbastisce il racconto come un'ambiziosa detective story in stile noir, dall'estetica raffinata e ricercata, che affonda le radici nell’epilogo del primo film e ne espande la portata filosofica.
Siamo nel 2049. I vecchi Nexus 8 sono stati soppiantati da replicanti di nuova generazione, più docili e obbedienti. Alcuni esponenti ribelli dei vecchi modelli si trovano ancora nascosti in giro e l’agente K (Ryan Gosling) della Polizia di Los Angeles, un blade runner, è incaricato di "ritirarli", ossia eliminarli. Quando K scopre un segreto sepolto da tempo, di quelli in grado di far precipitare nel caos l'equilibrio tra umani e umanoidi, si rende necessario rintracciare Deckard (Harrison Ford), sparito nel nulla da ormai 30 anni. Sarà un'indagine vecchio stile perché un black-out ha reso inaccessibili tutti gli archivi digitali precedenti al 2022.
"Blade Runner 2049" è supervisionato da Ridley Scott, qui in veste di produttore esecutivo, e poggia su una solida sceneggiatura firmata da quello stesso Hampton Fencher che aveva scritto il primo film. Tutto ruota, ancora una volta, attorno alle definizioni di identità e umanità. Il confine tra naturale e artificiale non è più così netto: essere nati differisce dall'essere stati creati, così come l'avere ricordi autentici dall'averne di impiantati, ma esiste una terza, miracolosa, possibilità. Forse c'è perfino un modo di essere "più umano dell'umano" che potrebbe consistere nel mettere in discussione le proprie certezze, nel coltivare la speranza di una vita più autentica e nell'anelare a essere speciale per qualcuno. In un mondo freddo, in cui la solitudine esistenziale è dilagante, le emozioni virtuali permettono il vagheggiamento di un amore che potrebbe non avere solo il limite dell'incorporeità ma anche dell'insincerità.
Il film è un viaggio di quasi tre ore in luoghi, fisici e non, in cui il confine tra verità e menzogna è labile: da un lato la memoria è un rifugio inaffidabile, dall'altro le insegne al neon cercano di vendere per veri contenuti virtuali. Di reale ci sono solo la pioggia e la neve, quindi per uscire dalla nebbia percettiva e autocertificare la propria umanità, all'agente K resterà un solo modo.
Le atmosfere originali vengono recuperate sia attraverso la meravigliosa fotografia di Roger Deakins, che ha un peso enorme sull'incanto visivo del film, sia grazie alle musiche di Hans Zimmer e Benjamin Wallfisch che riecheggiano quelle ormai iconiche di Vangelis.
Gli interrogativi morali e le ambientazioni di trentacinque anni fa non sono ripresi per puro citazionismo, quanto per dare un senso di continuità tangibile alle due opere.

Al netto di una certa mancanza di poesia, dovuta alla presenza di spiegazioni eccessive in certe scene (come quella in cui compare Jared Leto), Villeneuve compie il piccolo miracolo di esplorare nuovi orizzonti, restando fedele al passato.

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