Il cuore di Oceano, di Roberto Casati (Einaudi, pagg. 209, euro 20), che ha come suggestivo sottotitolo «Una navigazione filosofica», è in due citazioni, rispettivamente di John Ruskin, e di Michel Foucault. La prima è in nome dell'estetica: «Nella natura non si trova, a parte la più bella creatura del mondo vivente, niente di così assolutamente rimarchevole, ammaliante e capace di riempirci il cuore, come una nave ben manovrata sotto vela in un giorno di tempesta». La seconda ha a che fare con la fantasia e, per certi versi, con la libertà: «La nave è l'eterotopia per eccellenza, un luogo senza luogo, che vive per sé stesso e che è abbandonato, nello stesso tempo, all'infinità del mare. Nelle civiltà senza navi, i sogni si inaridiscono, lo spionaggio sostituisce l'avventura e la polizia i corsari».
Se le si esamina con un minimo d'attenzione, si vedrà che ambedue però rimandano a un'ottica terrestre, il porto da cui Ruskin contempla, come fosse un dipinto, lo spettacolo delle vele che governano il vento; l'abitazione in forma di barca chiamata a ricreare su una superficie liquida un ancoraggio a qualcosa di solido. Non caso, un grande navigatore francese, Eric Tabarly, sosteneva che per lui il mare fosse importante «soltanto in quanto rende possibile la barca»... Come nota d'altronde lo stesso autore, il mare aperto «è un altrove speciale, per definizione non un approdo ma un passaggio» e, per certi versi, «un deserto umano», il che semplicemente vuol dire che «non si hanno società esclusivamente marine: gli esseri umani non si ripartiscono tra i terrestri e i marini, ci sono soltanto umani terrestri sul nostro pianeta». Ultima considerazione aneddotica, ma Casati, che è un velista e un navigatore esperto, sa meglio di noi quanto l'aneddotica, il racconto, il confronto, sia fondamentale per chi va per mare, è quella che in forma di battuta recita: «Quando c'è burrasca, il marinaio esperto la contempla dal bar del porto»...
È curioso come nell'intraprendere questa «navigazione filosofica», nutritissima di riferimenti bibliografici, una quindicina le pagine che la compongono, nonché ricca di esperienze vissute, esperienze condivise o semplicemente tramandate, Casati non faccia mai riferimento a un filosofo del diritto come Carl Schmitt, autore, oltre che del celebre Il Nomos della terra, di un libretto, Terra e Mare, che è un compendio, per quanto datato, di cosa questa dicotomia abbia rappresentato nel corso dei secoli, fino a quando cioè un ordine e/o un disordine europeo ha lasciato il posto a un ordine e/o disordine mondiale. Schematizzando, il Mare, che non conosce frontiere, ha una logica marittima che risiede nella liquidità: dialettica dei flussi e dei riflussi, indistinzione di popoli e culture, un'indistinzione oceanica, primato del commercio sulla politica, sostituzione del solido e del durevole con il transitorio e l'effimero, nomadismo eccetera. Nel suo Memoria viva (Bietti editore), un pensatore come Alain de Benoist ha spinto ancora più avanti questa riflessione schmittiana, osservando che «il monoteismo del mercato è figlio della logica del Mare - non è un caso che la prassi capitalista sia imparentata anzitutto con la pirateria. La logica del Mare è fondamentalmente universalistica, mentre quella della Terra è particolaristica».
Dico questo perché, specie nell'ultimo capitolo, «Approdare, ripensare», Casati prende via via in considerazione ipotesi che spaziano dalla possibilità di «fare dell'Oceano una persona una e indivisibile» alla cosiddetta «adozione ambientale a distanza», al considerarsi «cittadini adottivi del mare», all'«utopia del popolo del mare», sino a uno «Stato del Mare con competenze tecniche, ecologiche, un numero limitato di diritti, l'iscrizione nei trattati internazionali»... Si tratta, naturalmente, di spunti critici, di «frecce concettuali» messe «nell'arco politico» del suo autore, nonché delle preoccupazioni più che legittime di un ecologista consapevole dei rischi di uno sfruttamento insensato del mare e delle «pressioni esercitate sul mare stesso e sulle popolazioni che con il mare hanno a che fare, entrambe diventate troppo importanti perché le si possa ignorare»...
Tutto giusto, ma ciò che alla fine rimane sempre e comunque sullo sfondo, e di cui lo stesso Casati è ben consapevole, è quella frase di Conrad sull'«oceano aperto a tutti e fedele a nessuno. Non è bene amarlo. Egli non conosce vincolo della parola data, non partecipazione alle sventure, non lunga comunione d'intenti, non lunga devozione. La promessa che offre perpetuamente è grandissima; ma l'unico segreto per ottenerne il possesso si chiama forza, forza, la forza gelosa, insonne dell'uomo che sta a guardia di un agognato tesoro a porte chiuse»...
Per chi, come noi, filosofo non è, Oceano resta egualmente una lettura affascinante per tutto quello che ha a che fare con l'epica, meglio le epiche: della navigazione, della scoperta e dell'esplorazione, degli elementi, del naufragio, della pesca, della distanza da casa e del ritorno. Come racconta bene Casati, «il mare è, quanto meno, evasione, perché in mare si fanno cose molto diverse da quelle che si fanno di solito nella vita a terra. È sempre e comunque un azzardo; anche una nuotata a cento metri dalla riva può sfociare in una situazione fuori controllo e senza ritorno». Di particolare interesse è anche tutta la filosofia legata alla navigazione, ovvero alla barca, all'equipaggio, alla nomenclatura, un vero e proprio linguaggio da iniziati che non ha però per scopo la segretezza, ma la chiarezza, la frugalità che vuol dire riuso, liberazione dal superfluo, ma anche ridondanza come condizione di sopravvivenza. Come spiega Casati, «ridondanza e riuso sono due dimensioni pochissimo valorizzate nella società contemporanea, che se da un lato ci ha imposto il consumo di oggetti effimeri, dall'altro ha spogliato o cercato di spogliare ciascuno di noi delle tradizionali tutele che nella loro ridondanza sono antitetiche a un modello in cui ognuno sa fare un'unica cosa, con strumenti standardizzati, in isolamento dai suoi simili».
Chiunque abbia una sia pur minima esperienza di navigazione sa benissimo quanto in essa ci sia di educazione alla vita: coabitazione in spazi ristretti, lavoro comune, spirito di bordo e spirito di equipaggio, necessità di una leadership, coesione nei momenti di pericolo... Diceva Chateaubriand: «Ogni volta che vedo una nave all'orizzonte mi viene voglia di saltare a bordo». E pochi elementi come il mare hanno esaltato quella componente nomade e avventurosa che è fra le caratteristiche più interessanti dell'essere umano: «Sulla spiaggia davanti al mare aperto c'è chi incontra un limite e si ferma, e chi invece scorge una possibilità e si imbarca». Eppure, con le dovute eccezioni che confermano le regole (il navigatore solitario Moitessier e la sua idea di navigare all'infinito), ogni navigazione è di fatto una nostalgia, ovvero si nutre sempre e comunque della speranza e della necessità del ritorno.
Sotto questo aspetto l'Odissea omerica è la più plastica delle raffigurazioni, laddove il «folle volo» dell'Ulisse dantesco suona come monito a non superare i limiti dell'agire umano l'hybris, l'eccesso di chi non conosce confini, di chi ritiene che tutto gli sia permesso...
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