Francisco Umbral, lo stilista carmelitano della lussuria

Fra saggio, reportage e note di costume, lo scrittore s'immerge nella bohème spagnola degli anni Sessanta

Francisco Umbral, lo stilista carmelitano della lussuria

Come tutti i grandi libri, anche questo comincia di sera, in un caffè, e si chiude con un funerale, in un giorno «crepuscolare e ventoso», dal «freddo violaceo». Come tutti i grandi libri, questo libro comincia con l'ambizione, ferina, e si chiude sull'erma del disincanto, celebra la mistica della chiacchiera e il mistero della poesia, è un'elegia sgraziata della giovinezza che s'incaglia nel cadavere, racconta il crollo e la carne, l'amore e la morte, l'amare fino alla morte. Il morto è Ramón Gómez de la Serna, superbo scrittore spagnolo che «con ostinazione infantile» cullò l'idea, bellissima e fatale, dello scrittore come «uomo al di là che non si sporca con la volgarità del mondo». Invece, il mondo è mera cloaca, becero anelare nel vento, e scrivere non salva nessuno, il poeta è cronachista del piscio, geologo tra ziggurat di merda; la letteratura, infine, resta «il più mediocre degli impegni con la storia».

Francisco Umbral - nome che nasconde un francescanesimo di ombre - è stato, semplicemente, il più audace stilista della lingua spagnola recente, un poligrafo, un provocatore, un generoso bastardo. Della sua prosa da carmelitano della lussuria, viscerale, voluttuosamente scabra e selvatica - «mi hanno sempre annoiato i classici di qualunque epoca e di tutte le culture», scrive lui, che a Cervantes, «a volte enfatico, retorico e pesante», preferiva Nietzsche, «pensatore distruttivo e spaventosamente lucido» -, in Italia, per atavica disattenzione, c'è quasi nulla, il libro dedicato al figlio morto, Rosa e mortale (edito da Jaca Book nel 1997), estratto da un'opera muscolare, esorbitante, che svaria tra romanzo, saggio al vetriolo, biografia (quelle dedicate a Lord Byron e al poeta maldito García Lorca, ad esempio), reiterate raccolte di articoli. Amava Carlo Emilio Gadda, era apprezzato da Jorge Luis Borges e genericamente odiato da quasi tutti gli intellettuali spagnoli che, scrisse alcuni anni fa, su El País, «continuano ad aggrapparsi al mantello del principe, che oggi è il politico. Per questo non vado più alle riunioni degli intellettuali: sono isterici, hanno perso ogni potere sulla storia, ogni legame con la società».

Di recente, gli è stato dedicato un documentario, Anatomía de un Dandy: fa il giro dei festival del cinema, fa il verso a un libro che Umbral, morto nel 2007, ha dedicato a Mariano José de Larra, esagitato, straordinario poeta spagnolo vissuto nel XIX secolo. I titoli dei suoi libri sono sornioni e guerreschi - Las ninfas; Los alucinados; Spleen de Madrid; Mis queridos monstruos; Capital del dolor; Diario de un snob -; più che un dandy, Umbral è stato un uomo solo nell'arena, un elegante eversivo, un dionisiaco disperato, uno che limava il verbo per uccidersi.

La notte che arrivai al Café Gijón (pubblicato nel 1977, tradotto per le Edizioni Settecolori da Giuliana Calabrese, pagg. 300, euro 26; con una prefazione di Carlos D'Ercole) è, semplicemente, un grande libro: comincia con un'ammissione - «tutti andavamo al Café Gijón per sentirci qualcuno» - finisce con un cadavere, cioè con la fine della spensieratezza e delle speranze - «Con Ramón moriva il mio sogno arcadico» -; racconta, soprattutto, l'epoca in cui era bello vanificare una vita inseguendo un bel verso, una sferica bugia che avrebbe fatto notizia, una donna dal viso esotico e dal profumo inesorabile. Rigurgita di donne, in effetti, questo libro, di muse passeggere, a volte sadiche, spesso superbe, perché la protervia della carne dilaga in sordide nostalgie: c'è Sandra, «asturiana di Buenos Aires, anima femminea e vivace della notte, diavolo dalle unghie laccate», c'è Holanda, «la ninfa americana» dalla «pelle chiara e opaca», e uno sciame di modelle, «liriche gru, fenicotteri femmina, dalle gambe sottili e con le gambe fragili, dagli occhi misteriosi e il collo musicale». Ah, «le donne del Gijón», dalla «consistenza sfocata e transeunte», che «arrivavano, passavano, davano soldi o li chiedevano, facevano l'amore e poi sparivano».

È un grande libro, questo, pieno di iniziazioni, di illazioni e di agnizioni, pieno di alienati, di poeti, di fallimenti e di falliti. Dire che la letteratura del secolo scorso si è fatta in una manciata di café - il Giubbe Rosse a Firenze, il Café de Flore a Parigi, il Tortoni a Buenos Aires... - è perfino un cliché: oggi si fa, piuttosto, leccando il didietro di un editor e sperando nell'invito in tivù («Toda la televisión es putrefacta», diceva, a proposito, don Francisco). Umbral ha raccontato, del Gijón di Madrid, il fiore, l'arcano, la verità e la vanità. Fino a trarne una morale, di saturo stoicismo: «Sembra che imparare a vivere... debba essere fatto di grandi scoperte e profonde ed elaborate verità. E invece no. Pare proprio di no. Sembra proprio che imparare a vivere voglia dire apprendere piccoli dettagli, cose di poco conto. Dare, una dopo l'altra, pennellate rapide e precise all'immagine di noi stessi».

Umbral è stato un giornalista dal talento inesorabile, uno scostumato censore dei costumi. Le cronache mondane pubblicate su El País - reperibili nell'archivio digitale del quotidiano spagnolo - sono spesso miliari: il «Ché», per dire, «era un Byron col berretto da guerrigliero, ha immesso nel clima biondo della nostra giovinezza una galassia di ferocia. Ha vissuto sulle pareti delle stanze adolescenti insieme a una riproduzione del Guernica di Picasso e all'icona di Alice, quella dei Lewis Carrol, il prete» (17 ottobre 1987); Picasso «è stato per quasi un secolo la novità assoluta perché ha rappresentato la tradizione assoluta... Ha genialmente plagiato l'arte di tutti i tempi» (25 ottobre 1986); di fronte a una confessione di Pedro Almodóvar, «Non mi sento desiderato, ed è terribile», Umbral reagì con candore al vetriolo: «Ora è finita, suppongo. Almodóvar ha avuto successo con un cinema segretamente terzomondista, che sublima il terzomondismo... tutti a Madrid si sentono riassunti e assunti da Almodóvar, e sono felici» (27 febbraio 1988).

Soggiogati dall'immaginario americano, in estro per Joan Didion, celebriamo i fasti del New Journalism e di quello Gonzo, ci galvanizza il gergo di Truman Capote, la mise di Tom Wolfe: Francisco Umbral, barocco, sgargiante, osceno e aggressivo, non è da meno, è l'antidoto europeo alla missilistica melassa statunitense.

In una fotografia scattata parecchi anni fa, Umbral è nudo, peloso, i consueti occhiali, capelli lunghi, fissa un teschio, che sorregge con la sinistra; una Olivetti, messa di sbieco, copre le vergogne. Quanto al resto, fu geniale e svergognato.

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