Il genio Raffaello, "Dio mortale" che ricrea la pittura

Alla luce dei suoi capolavori anche Ingres, de Chirico, Dalí assumono nuovi significati

Il genio Raffaello, "Dio mortale" che ricrea la pittura

«Nutro una grande diffidenza per Raffaello. Capisco che è un genio, ma appunto perché è un genio mi mette in difficoltà». Mentre sfuma finalmente l'interminabile cinquecentenario della morte del genio di Urbino, protratto sino all'estenuazione dai lockdown, Vittorio Sgarbi dà alle stampe Raffaello. Un dio mortale (La nave di Teseo) Potrebbe sembrare una concessione al rito della monografia celebrativa, a dispetto di un soggetto che è ispido e respingente quanto la sua pittura è facile e felice. Sgarbi rilegge invece l'opera di Raffaello usandola come una sorta di ipertesto che consente di comprendere i fatti della pittura italiana tra la fine del Quattrocento e l'inizio del Cinquecento e di organizzarli secondo nuove corrispondenze, associazioni di idee, sequenze.

Fedele sino in fondo al «genio dei minori» non per mero anticonformismo, ma per adesione al disegno di una riscrittura della storia dell'arte che procede dalla lezione del suo antico maestro Francesco Arcangeli e configura un nuovo, eccentrico sistema di equipollenze in cui Piero di Cosimo attrae più dello stesso Raffaello, Sgarbi invita a liberarsi degli schemi di una storiografia che si è andata stratificando sul pregiudizio di un primato dell'arte fiorentina. Esiste una trasmissione misteriosa di pensiero e sensibilità, come se già all'epoca ci fosse Internet, che fa conversare Carpaccio e Perugino, Giorgione e i pittori dell'Italia Centrale che scoprono il sentimento della natura. Non si tratta di meri punti di contatto. È qualcosa di più e di diverso. Raffaello va costruito parlando sistematicamente d'altro, di Piero della Francesca, di Giovanni Bellini, chiamando in causa il ferrarese Ortolano, più di Garofalo e Francia, per raccontare l'impatto della Santa Cecilia sulla pittura emiliana, e ancora Sassoferrato, che rifà le sue madonne dopo Caravaggio, o Pompeo Batoni, pittore più europeo persino di Tiepolo, ma che Sgarbi inchioda implacabile all'idea di un iper-raffaelismo, definendolo «un ulteriore raffaellesco in servizio permanente effettivo nel 1760». Raffaello non finisce mai, passa attraverso Murillo e Ingres, sorprende Renoir, ricorre in de Chirico e Funi, può essere esposto, come Sgarbi ha fatto al Mart, di fianco a Dalí e Picasso.

Il sapore inedito di questo libro è nel rovesciamento delle certezze incrollabili. Raffaello per Sgarbi arriva a contenere Lotto e la sua ritrattistica, ad accogliere il Pordenone e Sebastiano del Piombo. E in fondo la stessa Pala dei Frari di Tiziano non è altro che un Raffaello dipinto a Venezia. Raffaello è tutta la pittura, e il mistero della sua morte ci lascia col dubbio di un'esistenza da Jekyll e Hyde, apollinea davanti all'opera, consumata segretamente in tensioni dionisiache per il resto del tempo.

Anche questa possibilità però è difficile da sostenere di fronte all'evidenza della sua totale dedizione alla pittura. Sgarbi non lo scrive, ma in fondo Raffaello, genio senza corpo, come il diavolo del Grande Sertão, non esiste, e occorre raccontarlo attraverso gli altri pittori per restituirgli il palpito della vita vera.

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