Cannes si affida alla prima dama di Francia. Per tenere alto il tono del festival in questa prima edizione dopo la pandemia, Isabelle Huppert è il volto più efficace per il grande prestigio nazionale e l'enorme respiro internazionale. Regina di cinema e teatro, dove recentemente ha portato un dramma di Cechov, è il personaggio perfetto per tracciare un parallelo tra due arti tanto diverse, al contempo così vicine al pubblico.
E succede quello che non ti aspetti, una vera lezione su che cosa sia l'uno e quali differenze lo separino dall'altro. La professoressa Isabelle Huppert sale dunque in cattedra sulla Croisette e non ha timore di ammettere che «da ragazza non ho mai subito né il fascino né l'attrazione del cinema».
L'animo femminile l'ha sempre spinta verso storie sentimentali ma la piccola Isabelle non sognava, come tante coetanee, passerelle e abiti vertiginosi. Oggi da donna e attrice con una carriera straordinaria - da I cancelli del cielo di Michael Cimino alla candidatura all'Oscar per Elle, passando per i molti premi ricevuti - si guarda indietro e dice di essere intrigata soprattutto «dal modo in cui i registi interpretano una storia perché, da questo, un attore comincia a comprendere come costruire il proprio personaggio».
Un'operazione destinata a fare i conti con la natura dello spettacolo in cui si recita. «Il teatro è più autentico mentre la Settima Arte è decisamente più convenzionale».
Sembra insomma che i set, così prodighi con lei di soddisfazioni e celebrazioni vengano un po' snobbati ma la Huppert rassicura il suo pubblico. «Io sono sempre la stessa, dal vivo o su un grande schermo. L'aspetto più importante è la libertà di interpretare un ruolo con la possibilità di trasferirvi ciò che realmente si prova. Fedra, Medea o Madame Bovary - in questo senso - non fanno differenza». E nemmeno la perfida Mika di Grazie per la cioccolata di Claude Chabrol.
«Il cinema è invisibile. Il palcoscenico è fatto per chi crede alla realtà, il set attrae chi vive di immaginazione». Insomma, lo spettatore è preda di un'ambivalenza dalla quale sembra difficile riuscire a liberarsi ma anche per questo argomento la professoressa Huppert ha un consiglio. «Non è questione di dualismi. Non è mai il caso di capire se una parte sia facile o difficile, l'importante è il piacere di farla. Con il cinema facciamo qualcosa che resterà per sempre, il teatro è transitorio».
Inevitabile un'incursione tra i registi con cui ha lavorato, recentemente o in passato. «Patrice Chéreau con cui ho lavorato in Gabrielle, non lavora per il teatro e pretende molto dalla recitazione. Haneke lascia invece una certa libertà e Pialat è molto attento a riprodurre la realtà.
Questo esce prevalentemente dalle sue scenografie». Cannes si scopre una scuola e il pubblico una classe di scolaretti. Il lato frivolo che accompagna i tappeti rossi e sfilate che assomigliano ai defilè di moda sembrano lontanissimi. Invece sono al piano di sotto.
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