Correva l'anno 1952 quando il sottoscritto, studente un po' annoiato del secondo anno di Legge, decise di cercarsi un lavoro. I giornali erano pieni di offerte, ne trovai una che m'ispirava, mi presentai e nel giro di una settimana sedevo dietro a una scrivania dell'ufficio esportazione di una grande azienda produttrice di vermouth, vini e liquori. Stipendio iniziale, 49.000 lire al mese. Dopo due anni, mi stancai, provai a cimentarmi nel giornalismo, e fui assunto nella redazione di un settimanale. Stipendio 65.000 lire. Altri due anni e fui chiamato a prestare il servizio militare, una esperienza tutto sommato formativa che, credo, manchi ai giovani di oggi. Quando finii, 18 mesi dopo, il giornale non c'era più, ma nel giro di poche settimane trovai un'altra occupazione. Da allora, ho cambiato datore di lavoro altre sette volte, sempre (salvo una) di mia volontà; e sono arrivato serenamente alla pensione, senza che mi cambiassero le regole in corsa e mentre i progressi della medicina continuavano a regalarmi anni di vita che i miei genitori non si sognavano neanche. Ho avuto cioè una esistenza temo pressoché irripetibile nel nuovo millennio, oggi, ma ancor più domani e dopodomani.Se la racconto a uno dei tanti cinquantenni che, una volta disoccupati, non trovano più nessuno che li vuole, o ai milioni di giovani che, diplomati o laureati, restano disoccupati per anni e alla fine avranno pensioni dimezzate rispetto alle nostre, quasi non ci credono. Invece, con le dovute eccezioni di chi è rimasto indietro, viveva nel posto sbagliato o ha deciso di emigrare, negli anni del cosiddetto «miracolo» questa era la norma. Perciò - come credo capiti a tanti altri nati negli anni Trenta e Quaranta e ormai avviati a fine corsa sono arrivato a una conclusione, che mi piacerebbe aprisse un dibattito: la nostra è stata la generazione più fortunata della storia d'Italia, quella che ha attraversato il suo periodo più fruttuoso, stimolante e probabilmente irripetibile. Siamo quelli che hanno ricostruito il Paese dopo i disastri di una guerra da cui siamo stati appena sfiorati; quelli che hanno nel bene e nel male sperimentato la democrazia prima che la corruzione la intaccasse; quelli che erano già in campo quando la lira vinceva l'Oscar delle monete e che, pur con qualche sussulto, hanno vissuto un periodo di crescita ininterrotta, in cui ci siamo trasformati da Paese agricolo nella settima potenza industriale del mondo, l'80% degli italiani sono diventati proprietari della loro casa e l'automobile ha preso il posto della bicicletta; quelli che hanno vissuto il periodo d'oro dell'Europa, oggi diventata per molti una matrigna; quelli per cui l'immigrazione era ancora una risorsa e non un problema e nessuno si angosciava per l'effetto serra. Soprattutto, siamo stati i protagonisti di un periodo in cui c'erano più fiducia, più speranza, più ottimismo: eravamo convinti (o, con il senno di poi, illusi) che nonostante tutti gli ostacoli, benessere e qualità della vita fossero destinati a migliorare ulteriormente. Oggi, stando ai sondaggi e agli scambi di opinione con la gente, nonostante le sparate di Matteo Renzi su una presunta rinascita, molti italiani non la pensano a questo modo sul loro futuro; invece prevedono (non a torto guardando a certe classifiche internazionali, come la produttività o il livello di corruzione) che il Paese sia destinato a un progressivo declino.Certo, abbiamo passato anche noi i nostri guai, sia sul piano interno sia quello internazionale. Ci sono stati conflitti anche sanguinosi, in Medio Oriente, in Vietnam, in Africa, e soprattutto c'era la guerra fredda tra i due blocchi, basata sull'equilibrio del terrore: ma noi ne siamo stati toccati solo marginalmente e mai (con l'eccezione della crisi di Cuba), abbiamo avuto quella sensazione di ingovernabile instabilità globale che ha indotto papa Francesco a parlare addirittura di Terza guerra mondiale. Abbiamo avuto gli anni di piombo, con i due terrorismi paralleli rossi e neri che hanno fatto centinaia di vittime e ci hanno vivere nella paura, ma, guardandoli in una prospettiva storica, li abbiamo superati con una compattezza e una capacità di reazione che ci hanno ammirato anche all'estero e che oggi, in cui la minaccia viene dall'estremismo islamico, capita spesso di rimpiangere. Abbiamo avuto le nostre crisi finanziarie, culminate con la grande svalutazione della lira, la rapina dello 0,6% sui conti correnti e la gente che portava in massa i soldi in Svizzera, ma non ricordo un periodo di incertezza e di confusione lungo come quello che le generazioni più giovani stanno affrontando in questo momento. Abbiamo sofferto degli stessi mali di cui ci lamentiamo oggi, dall'inefficienza della burocrazia alla diffusione della malavita, dalla lentezza della Giustizia agli sprechi di Stato, ma dal momento che «la barca andava», ci sembravano forse più tollerabili di oggi. Abbiamo avuto Tangentopoli e tutto quello che ne è seguito, ma allora si sperò, almeno in una prima fase, che servisse a risanare il sistema, mentre oggi dobbiamo costatare ogni giorno che, nel fondo, non è cambiato nulla e per di più la gente mi pare quasi rassegnata.C'è chi preferirà senz'altro guardare l'altra faccia della medaglia. Per esempio, la nostra generazione ha beneficiato solo tardi degli straordinari progressi tecnologici che oggi fanno girare il mondo, e qualcuno si sente handicappato rispetto ai giovani che vivono di facebook, tablet, App...
Per esempio, dai tempi della nostra giovinezza il costume si è evoluto in una direzione nel suo complesso positiva, rendendo più facili i rapporti tra i sessi e la vita di relazione. Ma, mettendo il tutto sui due piatti della bilancia, rimango persuaso che penda a nostro favore. Naturalmente con l'augurio di sbagliarmi, per il bene dei nostri figli e dei nostri nipoti.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.