"The Last Days of American Crime", un wannabe-cinema firmato Netflix

Non un action-thriller ma una litania fuori controllo di cliché di genere. Un saccheggio di tempo costellato qua e là dalla presenza, confusionaria e opportunistica, di sesso e violenza.

"The Last Days of American Crime", un wannabe-cinema firmato Netflix

"The Last Days of American Crime" è l'ultimo film prodotto da Netflix e uscito sulla piattaforma.

Si tratta di un thriller diretto da Olivier Megaton (già regista di "Taken" 2 e 3) e basato sull’omonima graphic novel di Rick Remender e Greg Tocchini del 2009. Racconta di un futuro vicino, il 2025, ma già distopico, in cui il governo degli Stati Uniti ha trovato un metodo infallibile per contrastare la criminalità: un segnale radio che agisce a livello fisiologico, bloccando sul nascere l'intenzionalità di commettere un reato. Manca una settimana all'invio di massa del segnale e quindi, per un criminale in carriera come Graham Bricke (Édgar Ramírez), il tempo per portare a termine il colpo della vita stringe. Si allea con il figlio di un noto gangster, Kevin Cash (Michael Pitt), e con una hacker, Shelby Dupree (Anna Brewster), allo scopo di compiere l’ultima colossale rapina della storia americana.

La premessa è intrigante, soprattutto alla luce del fatto che l'incipit del film si sovrappone perfettamente alla situazione attuale vissuta dagli Stati uniti: proteste di massa senza precedenti e l'idea paventata dall'alto di sedarle con l'uso della forza.

L'ipotesi di un mondo privo di crimine perché con esseri umani condizionati, la privazione della libertà personale correlata alla faccenda e la presenza di forze dell'ordine in grado di compiere facilmente abusi di potere (nel film hanno lo scudo fisico di un chip e l'impunità legale), nelle mani di un regista diverso avrebbero potuto dare risultati notevoli e destare riflessioni dal tempismo provocatorio. Invece, in quelle di un individuo capace di cambiare in "Megaton" il proprio cognome e che quindi è lecito supporre abbia una vocazione all'ipertrofia, il risultato è quello che è. Nessun ancorché minimo cenno a un'analisi socio-culturale. "The Last Days of American Crime" si perde nei meandri di sottotrame mal sviluppate e talvolta pretestuose.

Era plausibile che il film, iniziando in medias res, con il rimedio al crimine già pronto, accantonasse la genesi scientifica di una tale scoperta, ma non che si ignorassero anche le implicazioni morali di quanto reso possibile da essa.

Quasi una variazione della "cura Lodovico" di Arancia Meccanica, questo comando sonoro alle sinapsi di massa conserva la stessa finalità di quella: annullare attraverso un input la propensione alla violenza. Peccato che stavolta siamo in un film non solo non memorabile ma che presenta la sfida di essere visto per intero. Una visione di due ore e mezza, percepita però a causa della mancanza di ritmo come fosse di quattro, funziona meglio a rate in questo caso, il che suggerisce che forse sarebbe stato meglio allungare ancora di più il brodo e farne una serie tv.

Sembra assurdo ma "The Last Days of American Crime", nonostante un tale minutaggio, presenta personaggi dalla caratterizzazione monodimensionale, un protagonista (Ramirez) che sfoggia un'unica espressione per tutto il film, un villain (Pitt) che è una macchietta e una femme fatale (Brewster) che si prende troppo sul serio e finisce con lo scimmiottare la categoria.

Mancando la qualità, ecco il tentativo di supplire con la quantità riempiendo il film di personaggi goffi, dialoghi a dir poco zoppicanti, un paio di inseguimenti, qualche esplosione, soldi falsi e, naturalmente, un po' di sesso, narrativamente inutile ma atto a riallacciare lo spettatore a rischio dormita.

Insomma, un film che può fare al caso di chi abbia un tale appetito d'intrattenimento da accontentarsi di un lauto pasto di mediocrità condito furbescamente con le solite spezie dal sapore forte, ossia amplessi e sparatorie.

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