"Il lettore è libero di dire: che palle Proust! Per poi innamorarsene"

Il critico e scrittore Alessandro Piperno ci racconta come affrontare i romanzi senza soggezione e per puro piacere

"Il lettore è libero di dire: che palle Proust! Per poi innamorarsene"

Se quando leggete un romanzo vi interessa soprattutto goderne, alla faccia del resto del pubblico e di tutta la critica, Il manifesto del libero lettore (Mondadori, pagg. 156, euro 18.50) di Alessandro Piperno vi offrirà una ricarica incomparabile di autostima e ne uscirete fieri della vostra spregiudicatezza. Dopo il suo lungo prologo corroborante e otto appassionate dichiarazioni d'amore per gli scrittori di cui non può fare a meno (Tolstoj, Flaubert, Stendhal, Austen, Dickens, Proust, Svevo Nabokov) sceglierete il prossimo romanzo mettendo al bando noia, complessità, sofferenza: un libro deve valere il prezzo del biglietto, darci la gioia di aprirlo, mai la fretta di finirlo. Perché non è il fine ultimo della vita, ma uno strumento di piacere: leggere è sexy e il libero lettore piperniano è un individuo che ha solo diritti, capricci e bisogni. E siccome Piperno non ha nessuna intenzione di spiegarlo meglio di come lo scrive, sarà in giro nei prossimi giorni non per presentare il libro ma per lezioni sul romanzo e gli scrittori: il 7 settembre al Festivaletteratura di Mantova (ore 21.30, Palazzo San Sebastiano) parlerà di Philip Roth, il 9 settembre (ore 10, piazza Battistone) al Festival della Comunicazione di Camogli Incipit e arte di connettersi al lettore e a novembre terrà cinque lezioni di letteratura per liberi lettori al Teatro Eliseo di Roma.

Al libero lettore interessano i romanzi che producono endorfina, non emicrania. Ce ne sono abbastanza in giro?

«Non ho il polso: sono un lettore onnivoro ma non iperinformato. Non so se in Corea del Nord in questo momento c'è un nuovo Omero. Difficile però oggi immaginare l'uscita di un libro che realmente diventa un evento come poteva essere cinquant'anni fa quando usciva Moravia. Ma non è un problema: non credo che la narrativa debba avere una reale influenza sulla società. È un diversivo, come un film o un'opera d'arte».

E che fine fa l'impegno?

«Per quanto mi riguarda, può andare a farsi fottere. Ha portato più male che bene alla cosa che mi piace a me, che è la narrativa. Tendenzialmente le opere che si prefiggono obiettivi che non siano artistici ma politici non ottengono alcun risultato politico e tendono a naufragare dal punto di vista artistico. Quando Sartre ha ripudiato la narrativa e ha scelto l'impegno non è riuscito a scrivere più niente di interessante».

E il savianismo dove lo mettiamo?

«Non so in che posto debba stare. Per Gomorra posso dire che di inchieste sulla camorra nel corso degli anni ce ne saranno state migliaia. Però Saviano ha creato un immaginario così nuovo e forte che se vediamo una certa cosa diciamo Quella è Gomorra, come avremmo in altri tempi detto Quella è la dolce vita. Saviano ha vinto sull'immaginario, non sull'impegno».

Il marketing è l'assassino della letteratura colta.

«Tutte sciocchezze, che si sono sempre dette. Le persone che fanno discorsi di questo tipo studiano poco e non hanno memoria. I letterati colti si sono sempre lamentati che il mercato non venisse loro dietro. Ho un giudizio solido che negli anni si è radicato e so riconoscere l'oro dall'ottone: se ci sono dei citrulli che invece questa capacità non ce l'hanno, si informino».

Quand'è che un libero lettore abbandona un libro?

«Credo molto nella prova del cucchiaino. Come il gelato: non è che ne devi mangiare una coppa intera per capire se ti va. Apro un libro, guardo l'incipit, il giro di frasi, l'atmosfera. Ci metto due minuti, forse anche meno, a capire se mi interessa».

Avrà pur preso qualche abbaglio.

«Un autore che promette sempre benissimo e che poi invece non riesce mai a chiudere, che ti porta subito dentro con titolo, incipit e trenta pagine geniali e poi implode con tutti i suoi libri è Marías. Credo di essere riuscito a finire solo un paio dei suoi libri. E in modo stanco».

Una rilettura che l'ha delusa?

«Lessi a 17 anni Il ritratto di Dorian Gray: avevo ariette un po' dandy e mi colpì visceralmente. Mi è capitato per un corso sulla retorica decadente di riprenderlo tra le mani e mi irrita a ogni riga. Anche Lo straniero, di Camus, era un capolavoro, ma scritto da un ragazzo con tipiche ansie da ragazzo».

Esiste un libro per tutte le stagioni?

«Anna Karenina resiste. Sta sulla sommità della montagna. Tolstoj è un autore per tutte le stagioni».

È vero che lei, che ama così tanto Roth, non ha voluto incontrarlo?

«Non lo amo, lo venero. Penso che sia il massimo scrittore contemporaneo, di una spanna superiore a tutti gli altri. Ho avuto due occasioni per conoscerlo, ma non ci sono andato apposta. I miti non vanno incontrati. Se venisse a Mantova Tolstoj, non andrei a vederlo: non mi interessa il profilo umano, mi interessano i libri».

E con Proust, come vi siete conosciuti?

«L'ho incontrato per la prima volta a 16 anni con I piaceri e i giorni. A quell'età tutto ti sembra uguale, i romanzi sono cose piene di cavalli, carrozze, marsine e donne amate, non è che sai distinguere Stendhal da Flaubert, che oggi invece mi sembrano come Roma e Lazio. Poi un amico mi regalò il terzo Meridiano dei Guermantes. Lo mollai dopo quaranta pagine e ne parlavo anche male con amici e parenti: Che palle Proust, mi chiedo questo sproloquio infinito che significhi. Poi mi regalarono L'angelo della notte di Giovanni Macchia, capii i miei errori e scoppiò l'amore».

Ma il libero lettore un canone ce l'ha, per dirla alla Harold Bloom?

«Sarei un ipocrita se lo negassi: la cosa comoda è appoggiarsi alla sapienza dei secoli, ciò che resiste vale. Certo, sul contemporaneo invece entra sempre in gioco il gusto personale. Detto questo, trovo ridicolo quasi tutto quello che fa Bloom.

Trovo che sia di una cafonaggine estrema: ha questa idea atletica delle cose artistiche, come fossero un match di boxe in cui Melville si picchia con Hawthorne. E poi è ossessionato dalle affiliazioni. A un mio studente darei quattro se dicesse cose così rozze».

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