Forse perché lo Strega non è più il tempio del romanzo e i generi ibridi si vanno sempre più affermando tra le candidature. Forse perché la figura centrale de L'uomo del futuro è Don Milani che, a 49 anni, dalla morte, è ancora uno tra i cognomi più discussi e virgolettati della Chiesa, e non più solo per la Lettera a una professoressa. O forse semplicemente perché Eraldo Affinati si è applicato in un'indagine coscienziosa e severa dei luoghi del «priore degli ultimi», in cui non ci stava più nemmeno un briciolo di ideologia perché lo spazio era tutto occupato dai fatti e dall'esplicitazione del loro legame bruciante con la contemporaneità. Sta di fatto che il racconto di viaggio di Affinati, classe 1956, insegnante, fondatore di una scuola gratuita di italiano per immigrati, la «Penny Wirton», in Gambia, a Benares, Pechino, Volgograd, Città del Messico, New York, Berlino ma ovviamente anche Barbiana, Milano e Montespertoli, sulle tracce dei «don Milani» di oggi è il candidato Mondadori alla serata finale dello Strega, presentato da Igiaba Scego e Giorgio Ficara. E non si può dire che non sia una scelta coraggiosa.
Come è nato questo libro?
«Don Milani l'ho sentito, prima ancora di averlo letto, nella mia esperienza, ormai trentennale, di docente di lettere. Come se fosse stato lui a spingermi verso l'insegnamento ai ragazzi difficili, quelli che non ti ascoltano quando spieghi. Insomma i ripetenti, ai quali ho dedicato un elogio. Lentamente ho cercato di mettere a fuoco la figura di questo sacerdote, educatore e profeta dei nostri tempi, ma solo quando sono andato nei luoghi che ne contraddistinsero l'azione, Firenze, Milano, Castiglioncello, Montespertoli, San Donato di Calenzano, Barbiana, ho capito che avrei dovuto scriverne. Per me la scrittura è sempre l'ultima stazione dei miei viaggi: il momento in cui metto un timbro di conferma su ciò che già so, oppure smentisco quello che pensavo di sapere».
Dopo tutto quello che è stato detto, articoli, libri, comizi, conferenze, polemiche, c'era ancora da raccontare, sul prete di Barbiana?
«Proprio per questo ho voluto scriverne. Per collocarlo nello spazio che gli compete, ben oltre le congiunture del suo tempo. Nel cuore del Novecento».
Non sarà che è il momento giusto? Papa Francesco, Padre Pio un buon momento per ripensare alla fede come maestra di vita?
«Non ci sono mai buoni o cattivi momenti, di tipo epocale, per avere la fede o perderla. Esistono atti di volizione individuale. Scommesse di senso. Possibili illuminazioni. Profonde oscurità. C'è chi prende posizione. E chi si rifiuta di farlo».
Eppure l'ultima volta che lei si è confessato aveva tredici anni... E poi?
«C'è in me una tensione religiosa inesausta. Una forma di cristianesimo primitivo che scaturisce dalla predisposizione pedagogica e letteraria. Ho avuto una crisi legata alla mia adolescenza solitaria un po' stregata: senza punti di riferimento culturali, né modelli politici o spirituali da seguire. Sono figlio di due orfani, mia madre sfuggì da ragazza ai lager tedeschi, dopo la fucilazione di mio nonno partigiano da parte dei nazisti. Mio padre è stato un bambino abbandonato. Ho cominciato a leggere Tolstoj, Hemingway, Conrad, Fenoglio, quasi fossero salvagenti cui aggrapparsi per non affogare. Tutto questo ha creato una specie di marasma dentro di me da cui sono lentamente uscito con la scrittura e l'insegnamento, nel tentativo di risarcire i miei genitori di quello che loro non ebbero la fortuna di ottenere».
Per scrivere L'uomo del futuro si è molto documentato. Il testo che ha più amato?
«Lettera ai giudici, l'opera più intensa e compiuta. Un prodigio stilistico. Un'idea dell'Italia. Un furore etico di ineguagliabile forza lirico concettuale. In quelle poche pagine, composte con l'inchiostro rosso, comprendiamo che don Lorenzo è stato anche un grande scrittore epistolare, nel solco più puro della letteratura italiana, pensando a Ugo Foscolo. Scriveva di getto, senza ricopiare in bella, a fondo perduto».
Saggi e romanzi su insegnanti e allievi si moltiplicano: i professori sembrano inermi di fronte a studenti tanto più maturi di loro e tanto più soli.
«Il professore coi suoi allievi realizza una particolare forma di relazione umana: una delle più belle, perché quello che succede in aula possiede effetti indelebili. È la potenza dell'insegnamento».
Insegnare significa?
«Accendere una passione. Costruire in ogni scolaro esperienze conoscitive. Ripristinare le gerarchie di valore nel nuovo orizzonte informatico».
Il professore è un maestro?
«Non ci dovrebbe essere contrapposizione. In entrambi i casi non si consegna il sapere come se fosse un pacco postale, semplicemente spostandolo da un luogo all'altro, ma si guidano i ragazzi verso la maggiore età sviluppando in loro la consapevolezza della tradizione, una coscienza critica e la responsabilità verso l'altro».
E come si distingue il buono dal cattivo maestro?
«Il buon maestro è quello che aiuta lo scolaro a scoprire se stesso, a trovare un sentiero che lo conduca in porto».
E insomma oggi don Milani chi sarebbe?
«Uno che si assume la responsabilità dello sguardo altrui».
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