A scuola sull'antologia italiana si studia(va) un capitoletto intitolato I minori dell'Ottocento, scrittori e poeti che hanno avuto la sfortuna di vivere nel secolo di Leopardi, Manzoni, Verga... Con le dovute differenze è un po' quanto è accaduto nella musica a Sixto Rodríguez, cantautore di origini messicane nato nel 1942 di Detroit, di un anno più giovane di Bob Dylan a cui molti - troppi - agli inizi devono averlo paragonato, sua croce e delizia che ha portato a una di quelle classiche sottovalutazioni di cui la storia, non solo musicale, è piena. Scoperto in un bar di quella Detroit più povera, operaia e degradata da due produttori, Rodríguez incide il suo primo disco nel 1970 Cold Fact, un capolavoro che al massimo vende sei copie. Poi il secondo album Coming from reality, passato anch'esso inosservato, e infine l'oblio segnato da aneddoti leggendari come il suicidio sul palco causato, così a piacere, o dal colpo di una pistola o da una tanica di benzina con cui s'è dato fuoco.
Bene ora questa materia incandescente si è trasformata nello struggente documentario Sugar Man dello svedese Malik Bendjellou che ha vinto quest'anno l'Oscar nella sua categoria ed è stato presentato in anteprima l'altra sera al Biografilm Festival di Bologna per poi essere proiettato, oggi e domani, nelle 36 sale del circuito The Space Cinema. Più che un documentario sembra un giallo, un thriller in cui il regista ripercorre, grazie alle ricerche e alle testimonianze di un fan e di un giornalista sudafricano, l'intera vicenda del cantante caduto nell'oblio nel suo paese che però, lontanissimo da casa, in Sud Africa, è diventato una vera e propria leggenda. Complice una turista statunitense che portò con sé in un viaggio un suo disco. Da lì incredibilmente le sue canzoni diventano la colonna sonora dei giovani Afrikaans e sono la scintilla per la prima vera opposizione dei giovani bianchi all'Apartheid che in quegli anni era al culmine della sua follia. Tanto che - viene detto nel film - in qualsiasi negozio di dischi «avresti sempre trovato Abbey Road dei Beatles, Bridge Over Troubled Water di Simon and Garfunkel e, naturalmente, Cold Fact di Sixto Rodriguez». L'indagine del regista svela come nella patria della segregazione razziale i suoi dischi abbiano venduto fino a mezzo milione di copie (nonostante le autorità censurassero il vinile con l'adesivo «Evitare» e graffiando, per renderla inascoltabile, proprio la canzone Sugar Man in cui si parlava di droga) perché «ogni rivoluzione ha bisogno di un inno e in Sud Africa Cold Fact fu l'album che, grazie al tema della lotta all'establishment, diede alla gente l'impulso di liberare le proprie menti ed iniziare a pensare diversamente». Così Koos Kombuis. Willem Möller, Johannes Kerkorrel, icone della rivoluzione musicale Afrikaans, si ritrovarono a ripetere all'unisono: «Ci ha ispirato Rodríguez». Il piccolo particolare è che di tutto questo Sixto non sapeva nulla. Ma, a parte la gloria, non è ben chiaro nemmeno chi sia diventato ricco con tutti quei proventi dei diritti d'autore. Certo non lui che con tre figlie da mantenere lavorava come operaio nelle fabbriche di Detroit. Su questo versante il documentario non riesce a trovare un colpevole anche se si capisce che qualche casa discografica non ha certo pubblicizzato negli Stati uniti il successo sudafricano. A testimonianza di questo l'intervista del regista a un nervoso Clarence Avant che è stato a capo della gloriosa etichetta Motown ma anche della Sussex, proprio quella di Rodríguez, che, visto l'insuccesso, lo cacciò due settimane prima di un Natale. E la prima strofa della canzone Cause precedentemente registrata, come se fosse una premonizione, recitava: «Ho perso il lavoro/ Due settimane prima di Natale».
Il film ha un'incredibile finale che vale la pena di essere visto e non svelato.
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