Ci risiamo. Il copione, sempre quello, sempre identico, si ripete ormai da decenni. Dalla Piovra fino a Gomorra, ogni volta che in tv - o al cinema - esce un film su mafia o camorra (e a maggior ragione se si tratta d'un successo) l'uditorio si spacca. Chi accusa il genere «mafioso» di gettare discredito sull'Italia e, indirettamente, di rendere un servizio alla malavita, mitizzandola. Chi replica che il genere ha solo finalità civili, perché affronta una piaga sociale proprio per denunciarla. Ancora non si sono spente le proteste che hanno opposto sindaco e abitanti di Scampia ai realizzatori di Gomorra 2, che un'altra serie a sfondo camorristico - ed alto potenziale seduttivo - minaccia di rinfocolare le polemiche. Proviamo allora a capire con Stefano Accorsi, protagonista da venerdì su Canale 5 delle otto puntate di Il clan dei camorristi (produttore Pietro Valsecchi, un abbonato alle diatribe: già il suo Capo dei capi sollevò analoghi vespai) cosa c'è alla base del successo - e delle polemiche che in questi casi puntualmente si ripresentano.
Allora, Accorsi: pronto alla battaglia?
«Francamente non capisco cosa ci sia da scaldarsi tanto. Io ho accettato questa serie proprio perché nella sceneggiatura sia la camorra che la legge sono raccontati senza retorica, senza idealizzazioni. Tutti i fatti descritti sono reali, tratti dalla cronaca. Magari un po' romanzati; questa è una fiction. Ma mai mitizzati».
Con la regia di Angelini e Sweet, Il clan dei camorristi racconta la trasformazione dalla camorra in sistema alternativo, ma anche colluso con le istituzioni. È vero che per il personaggio del giudice Esposito lei si è consultato con un magistrato autentico, quel Cantone che arrestò il famigerato «Sandokan»?
«È vero. E la prima cosa che lui mi ha chiesto è stata proprio: per favore non fatene un arcangelo Gabriele, con la spada di fuoco. I giudici sono molto meno famosi dei delinquenti che arrestano. Lavorano nell'ombra, pazientemente, aggiungendo granellino a granellino, giorno dopo giorno. Io poi ho voluto sapere tante cose della sua vita privata - cosa si prova a vivere con la scorta, se si è mai perso d'animo, se sua moglie riesce a reggere la pressione - proprio per restituirne un ritratto umano, immerso nel reale».
Il produttore Valsecchi ha detto che «Mediaset ha dimostrato d'essere molto più avanti della Rai, di avere più coraggio. Anni fa Berlusconi censurò questo genere; ma noi li realizziamo lo stesso». Che ne pensa?
«Questa era una storia che andava raccontata. La gente deve sapere cos'è oggi la camorra. Deve capire che col tempo è diventata un pezzo del sistema politico ed economico di questo Paese. Il male non siamo noi a renderlo seduttivo. Lo è da sé. Ma forse è meglio conoscerlo, che voltare la testa per ignorare che esista».
Le proteste degli abitanti di Scampia le sembrano giustificate?
«Ci sono tante fiction che raccontano gli aspetti belli della vita... Proprio a Scampia non ne gireranno una su Pino Maddaloni, il campione olimpico proveniente da quel quartiere? Ecco: si parla del bello e del brutto».
Con Il clan dei camorristi (doveva chiamarsi I casalesi, ma Valsecchi ha preferito cambiargli titolo per prevenire le proteste degli abitanti di Casale) lei torna alla fiction dopo ben tredici anni.
«Si. L'ultima era stata Il giovane Casanova, nel 2000. Ma non è stata una scelta; non mi hanno più proposto cose interessanti. E poi, i tempi di chi storce il naso davanti alla fiction sono tramontati da un pezzo».
Compagno dell'attrice Laetitia Casta, con cui ha due figli, lei vive da sette anni a Parigi. Mai un rimpianto? Neppure una nostalgia? Che differenze ci sono tra i due cinema cugini?
«Cugini lo erano quando producevano lo stesso numero di film. Oggi le 200, 300 pellicole all'anno della Francia l'Italia se le sogna».
È vietato farle domande sulla sua vita privata. Questione di professionalità o di metodo?
«Di naturale riservatezza. La mia vita privata è solo mia. Se no perché sarebbe privata?»
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