Il lungo cammino di Fermor verso la Grecia moderna

Il grande scrittore inglese in "Rumelia", tradotto solo oggi in Italia, narrò un mondo cambiato per sempre

Il lungo cammino di Fermor verso la Grecia moderna

Negli anni Cinquanta del secolo scorso Patrick Leigh Fermor (Londra, 1915 Worcestershire, 2011) lavorò a due libri sulla Grecia concepiti come un tutt'uno, ma intervallati da circa un decennio nella pubblicazione. Il primo, Mani, uscì infatti nel 1959, mentre il secondo, Rumelia (che ora viene ripubblicato da Adelphi, pagg. 292, euro 20; traduzione di Daniele V. Filippi), vide la luce nel 1966. In questo arco di tempo la trasformazione del Paese subì un'accelerazione che non risparmiò la vita pubblica e privata di Fermor. Innanzitutto, ci fu l'indipendenza di Cipro, colonia inglese per un trentennio. Non fu una separazione consensuale, scorse del sangue e, come si legge in Rumelia, un intero secolo di filo-ellenismo britannico ne uscì malconcio: «L'acredine greca durante questo disastroso interludio è stata esacerbata ancor più dai sentimenti favorevoli che avevano prevalso prima. È presto per dire se le cose torneranno al felice stato precedente () I gigli, quando marciscono, putono assai più della malerba». Per la prima volta, Patrick respirò, senza colpa, l'ostilità che il suo essere inglese poteva suscitare e la cosa lo amareggiò ancor più visto che durante la Seconda guerra mondiale era per la libertà della Grecia che aveva rischiato la vita.

Un secondo elemento politico fu nel 1963 il governo socialista di Papandreu. In una nazione che aveva cominciato il suo dopoguerra con una guerra civile fra comunisti e monarchici terminata nel 1949 con la sconfitta dei primi, poteva essere letto come la consacrazione di una riappacificazione, ovvero l'inizio di un nuovo corso democratico aperto a sinistra. A togliere ogni illusione in proposito ci penserà, già nel 1967, un colpo di Stato militare che trasformerà la Grecia da monarchia in «dittatura dei colonnelli». Ironia della sorte, appena un anno prima Fermor aveva inaugurato in quel di Kardamili la casa che sarebbe poi divenuta la sua residenza in Grecia sino alla morte. I «colonnelli» del resto, tempo pochi anni, si faranno fuori da soli cercando di annettersi Cipro e andando così a sbattere contro i turchi.

C'è infine un terzo elemento da considerare, che più generalmente riguarda l'intera Europa occidentale postbellica e nel quale ricostruzione economica, nuove tecniche e logiche di consumo, rinascita industriale e moltiplicarsi delle vie di comunicazione disegnano i contorni di una modernizzazione che investe non solo il lavoro, ma anche l'edilizia, il commercio, il tempo libero, il riposo che si fa vacanza, la vacanza che si fa turismo.

Leigh Fermor era stato sino ad allora un viaggiatore solitario, uno che da ventenne, negli anni Trenta, aveva attraversato l'Europa a piedi, o tutt'al più a cavallo, a dorso di mulo, su carri e carretti. Era più o meno consciamente un teorico della lentezza e un pellegrino con qualche pulsione ascetica e molto gusto per la vita: la gente, le storie, i paesaggi, le tradizioni. Anche la guerra, che ne aveva provocato il ritorno in patria, era stata da lui vissuta in controtendenza, principalmente fra i pastori della resistenza antitedesca a Creta, un campo d'azione dove l'unica modernità erano gli strumenti di distruzione, dalle bombe alle mitragliatrici, ma tutto il resto rimaneva premoderno: la natura impervia, la fatica fisica, i codici comportamentali. Non è un caso che, a guerra finita e tornato in abiti civili, Fermor si fosse sentito come un pesce fuor d'acqua, e i suoi tentativi di ritagliarsi in Grecia un ruolo nell'amministrazione britannica si fossero conclusi con un licenziamento. Non era fatto per una scrivania, era a disagio con gli orari, i protocolli, gli scatti di carriera.

Tutto questo aiuta insomma a capire l'inattualità di cui Rumelia è intriso: «La Grecia sta cambiando velocemente. Il racconto di questi viaggi, compiuti oramai qualche anno fa e tutti ispirati da astrusi motivi personali, sarebbe una guida ingannevole (). Per la prima volta dai tempi di Giuliano l'Apostata si innalzano fumi tra le colonne, e il viaggiatore deve addentrarsi nei recessi dell'entroterra per sfuggire alle radioline». Detto in altri termini, «il turismo è la più pericolosa invasione dai tempi di Serse».

L'inattualità sta anche alla fonte di quella che è la chiave di lettura del libro, la distinzione fra «Elleno» e «Romaico» dove il primo «evoca le glorie dell'antica Grecia» e il secondo «gli splendori e le pene di Bisanzio». Non è questa la sede per verificare la fondatezza della tesi di Fermor, che comunque ne sapeva della Grecia e sulla Grecia molto più di noi, quello che è importante è l'elemento paradossale che da essa scaturisce. Per Fermor, la Grecia che si affaccia sul mare della modernità dopo un secolo di indipendenza e due guerre mondiali si serve del suo retaggio ellenico per provare a navigarvi dentro e butta invece fuori bordo tutto quanto di «romaico» le aveva comunque permesso di sopravvivere nei tanti secoli di dominazione ottomana, nelle lotte per la libertà, nel piccolo cabotaggio nazionale che a esse era seguito. Proprio perché la Grecia così com'è è perdente di fronte al nuovo che avanza, i greci si rifanno a un passato talmente mitico e del quale rimane solo «lo splendore di un'idea», per giustificare ed esaltare la loro adesione al nuovo. Viene da qui l'ammirazione per la civiltà europea, l'adozione di uno stile occidentale, la tendenza centripeta verso Atene e, più in generale, il rifiuto di ogni oriente e di ogni orientalismo ritenuti non una componente, ma un'escrescenza della grecità.

Fermor, naturalmente, è dalla parte dei «romioi», pur sapendo che è la parte destinata a essere sconfitta: «Ciò che è vecchio va in sfacelo, le antiche tradizioni si estinguono, i punti di riferimento scompaiono, tutto cambia a una velocità sbalorditiva. Specialmente ad Atene, le novità venute da Occidente sono accolte con entusiasmo indiscriminato». Rumelia è, se si vuole, il suo omaggio a un mondo che sta per scomparire e che però lui ha fatto ancora in tempo a conoscere: «Non i greci come erano duemilacinquecento anni fa, né come saranno o potrebbero o dovrebbero essere un domani, ma i greci come sono adesso».

Costruito su una serie di capitoli legati fra loro dalla geografia e dalla eccentricità delle scelte, le Meteore e l'etnia nomade dei Sarakatsani, l'argot in stile malavitoso dei Kravara, un viaggio a Creta, un altro a Missolungi sulle tracce delle babbucce di Lord Byron, Rumelia ha lo stile del miglior Fermor: «Il mondo laggiù era nascosto da una distesa immacolata di nuvole che saliva come una massa compatta fino al margine del parapetto. Solo i monasteri delle Meteore ne emergevano, come avamposti in una landa polare». E ancora: «È l'ora del terrore meridiano, e un dito invisibile scorre lungo la nuca del viaggiatore solitario, facendogli rizzare i capelli. In questi momenti l'isola è come un'incudine in mezzo al mare sotto il maglio inudibile del sole».

La lunga digressione intorno a Byron nel capitolo «A nord del Golfo», divertente e a suo modo commovente, vale infine un inciso, non foss'altro perché, come notò a suo tempo Artemis Cooper nella sua biografia su Fermor, fra i due c'erano molte somiglianze: studiosi e uomini d'azione, scrittori ossessivi nella loro ansia di perfezione sulla pagina scritta, spartani nel viaggiare e però amanti del lusso, entrambi dotati di quella che i greci

chiamano levanteia ovvero coraggio e strafottenza. Soprattutto, entrambi innamorati di una Grecia ideale più che reale o dove comunque la realtà veniva idealizzata. Sotto questo profilo Rumelia ne è l'esempio più felice.

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