Lorenzo Viani è un gigante dimenticato delle nostre avanguardie culturali del primo Novecento. Eppure, nell'eredità di questo grande pittore-prosatore nato a Viareggio nel 1882 e morto in pieno regime fascista, nel 1936, si trova la fioritura delle più originali innovazioni germogliate sul tronco vivo della tradizione del linguaggio figurativo dell'arte italiana, che vanta parecchi fondatori toscani. Ora l'editore Maria Pacini Fazzi di Lucca pubblica il suo riverente omaggio alla Toscana tirrenica, terra di vite e di cipresso, con Lorenzo Viani racconta Carducci, d'Annunzio, Pascoli e Puccini, una raccolta di testi dell'artista-scrittore che videro la luce nei prestigiosi tipi di Vallecchi (pagg. 120, euro 15). Quattro intensi medaglioni dedicati a maestri insigni che, in almeno due casi, come per d'Annunzio e Pascoli, furono «toscani» soltanto d'adozione, in quanto venuti da fuori a sciacquare la loro poetica in Arno.
Viani racconta di quando, garzone di bottega del barbiere Fortunato Primo Puccini, accompagnò il suo padrone alla Villa La Versiliana, a radere il volto del Vate. Narra che d'Annunzio «aveva già il cranio levigato come un ghiaione di fiume» e che, ravvolto in una clamide bianca, attese paziente che l'opera dell'artigiano fosse compiuta, per dileguarsi come un'ombra. Forse senza neppure saldare il conto.
Viani non compie studi regolari: refrattario tanto alla disciplina quanto alle accademie, resta fondamentalmente un autodidatta di talento. Scoperto da Giovanni Fattori, si distacca, però, dalla lezione pittorica dell'Ottocento, dominata dai macchiaioli di scuola toscana. Divorato dall'oscuro male di vivere, conduce a Viareggio un'esistenza randagia, fra i senzatetto, tanto da dormire spesso sulle banchine del molo, a respirare l'epopea dei miserabili che trova la sua suprema sintesi nelle grandi narrazioni orali delle bettole del porto. Nelle sue vene ribolle lo spirito di rivolta, e di rivalsa, che sorge dalla disperazione: quella vissuta sulla propria pelle, e quella scorta, con sgomento, nelle vite degli altri.
È il rapsodo dei vàgeri, l'espressione più autenticamente popolaresca della gente di Versilia: vecchi marinai, contadini, pastori, vagabondi, vedove del mare piegate dal lutto. Oltre a schierarsi, fin da giovane, con gli anarchici, Viani simpatizza, per istinto, con i derelitti, che riscatta dai tormenti degl'inferi per elevarli, attraverso la forma poetica, alla dignità umana: e questo avviene sia nelle opere pittoriche, sia nella prosa intinta nel vernacolo versiliese. Viani assorbe le più varie contaminazioni culturali, partecipando al mitico Club della Bohème che Puccini, da consumato seduttore di donne e di pubblico, anima e inscena nel suo complice circolo di Torre del Lago.
Ma poi il provinciale Lorenzo, oltre a simpatizzare con Boccioni, con il futurismo rissaiolo, con i «lacerbiani» Ottone Rosai, Giuseppe Ungaretti e Giovanni Papini, soggiorna più volte a Parigi, ospite del dormitorio pubblico della Ruche, da lui immortalato tanto nelle sue pagine di prosa, quanto in una delle sue più vivide tele, esposta alla XVI Biennale di Venezia del 1928, dove la sua intera opera viene presentata da Margherita Sarfatti. A Parigi, Viani frequenta Picasso, subendo quelle influenze che si situano al punto di caduta dell'impressionismo dentro le suggestioni visionarie, allucinate, irrazionali, e insieme potentemente liriche, dell'espressionismo.
Nel testo riedito da Pacini Fazzi, l'artista dedica una pagina al ricordo di una sua visita al Jardin des Plantes, l'Orto botanico della Capitale francese, dove descrive, in un italiano di nuovo conio, intriso di raffinate gergalità, una scena che si svolge nello zoo interno: «Dei ragazzi puppati dal freddo, per riscaldarsi, facevano giro tondo. Le loro madri agucchiavano e sforbiciavano fitte fitte con la lingua. Degli uomini trascurati stazionavano torno torno alla cancellata che recingeva la fossa degli orsi. Un ragazzo sciamannato si avvicinò alla cancellata e gettò nella fossa un gatto scarnito. Gli orsi, che parevano slacciati nelle giunture, scattarono bramendo e diluparono il gatto. Un altro ragazzo con un tozzo di pan secco faceva cincilecca alle belve; faceva l'atto di tirargli il crostello e poi lo ritraeva; con questa lusinga costringeva gli orsi a star ritti sulle zampe posteriori e a fare quello che si suol dire ballomanno. Io mi ero fissato sopra una gabbia in cui si arribisciava sitibonda una iena che aveva gli occhi sobbolliti di sangue. La belva annusava un ciotolone vuoto, contorceva la nervatura alzava il pelame, diacciava la lingua fuor del telaio dei denti e ruggendo percoteva il capo nell'inferriata».
Come tutti gli artisti maledetti, anche Viani custodisce, nell'abisso più cupo e inaccessibile della propria anima, le «chiavi nel pozzo» (dal titolo di un suo romanzo): la sorgente inesplicabile della sua inquietudine che, di malattia in malattia, lo sospinge nel vortice dell'inesorabile autodistruzione, elaborando il trauma dell'esperienza manicomiale come materiale grezzo di psicanalisi freudiana su tela o in prosa. Per il resto, la biografia di Viani ci presenta una tavolozza di cromatismi così varia e contraddittoria, anche da un punto di vista politico, da suscitare interrogativi: pur godendo infatti del favore del regime, che lo porta in auge nelle più ambite manifestazioni di vetrina culturale, l'artista diserta le liturgie littorie, tanto da irritare i maggiorenti del Fascio viareggino. Pare anche che la sua opera impressionasse lo stesso Mussolini, dotato di un fiuto rabdomantico nello scoprire, e nel promuovere, le personalità erratiche del panorama culturale della «nuova Italia».
Viani resta, in campo artistico, insieme a Modigliani, a Rosai e al Sironi dei paesaggi urbani nordici, un esponente tra i più significatici dell'espressionismo italiano, mentre in
ambito letterario è stato paragonato a Céline. Fedele fino all'ultimo al suo fiero temperamento libertario e antiborghese, il generoso cantore dell'umanità dolente fu stroncato da un collasso cardiaco il 2 novembre 1936.
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