I lettori italiani del romanzo spagnolo del dopoguerra conoscono la scrittrice Ana María Matute (Premio Cervantes 2010 e più volte candidata al Nobel), ma non come meriterebbe la sua opera, e la motivazione sta nel giudizio o meglio nel pregiudizio che tende a liquidare l'esperienza narrativa del realismo sociale iberico come frutto di una cultura sottoposta al controllo del regime franchista. Ciò in parte è vero ma non certo per il caso della Matute, la cui infanzia è segnata dagli orrori della guerra civile che la memoria della bambina conserva ed evoca nei suoi libri.
Un tema ricorrente segna la sua opera: il contrasto tra il mondo degli adulti, per lo più rappresentanti della borghesia e aristocrazia, responsabili della guerra fratricida, e quello degli adolescenti e soprattutto dei giovani che guardano verso una nuova realtà. Categorie che si confrontano, si scontrano nei luoghi deputati della loro rappresentazione: la città e la provincia, spazi concreti come sono la scuola nel convento-prigione o l'isola dell'estate aperta sul Mediterraneo.
Su tali dicotomie, ma anche sulla presenza dell'irrazionale nella quotidianità si fonda il romanzo Ricordo di un'isola (Fazi, pagg. 150, euro 16; traduzione Maria Nicola), già apparso da Sellerio nel 1997. Primera memoria è il racconto spagnolo che apre la trilogia Los mercaderes, ma ci sembra giusto e appropriato il nuovo titolo poiché meglio circoscrive e interpreta, entro coordinate più visibili (l'estate e l'isola di Maiorca), lo spazio utopico che traduce il sentimento di libertà e autenticità della protagonista, l'adolescente Matia. La quale, orfana di madre e abbandonata dal padre, è cacciata dal convento dove studia, a causa di un calcio sferrato contro la vicedirettrice, quindi spedita nell'isola di Maiorca presso l'aristocratica e arcigna nonna.
Nel silenzio della nuova sonnolenta dimora, in cui abita anche la zia Emilia e il cugino Borja, la giovane scopre l'irritante odore di muffa e salsedine delle stanze vuote, ascolta l'improvviso scricchiolio della sedia a dondolo della nonna, osserva il prolungato sbadiglio della zia, vede le chiazze sul soffitto e l'intonaco spaccato del muro: tutto coglie e trasforma in presenze inquietanti che colmano la sua solitudine di ragazza. Da tempo ha smesso di sognare e ora lo fa stretta al suo pupazzo di pezza, il negretto Gorogò («Spazzacamino»), mossa da un desiderio inconscio di conforto e insieme espiazione, un'ombra che riflette l'immagine della guerra civile appena iniziata, di cui giungono echi lontani dei suoi orrori. Ci sono anche tentativi di fuga in barca organizzati con il cugino, rumorose scorribande vissute nell'isola con altri adolescenti e imprese temerarie che sfuggono al controllo dei distratti genitori.
Il cerchio della storia di questa ribelle adolescente che ruba sigarette e mostra tutta la sua impotenza e rabbia contro la nonna, rappresentante di un mondo ormai lontano, si chiude con l'abbraccio finale con l'odiato cugino, dopo la scoperta di un furto a cui Borja ha partecipato ma incolpa il giovane Manuel della potente famiglia Taronki, che verrà richiuso in un orfanatrofio.
È un abbraccio fatto di lacrime che rivela il malessere interiore di Matia, ora giovane donna che rivede lo spettro della prigione contro cui ha lottato, un carcere del corpo ma anche dell'anima; un sentimento acuto e profondo che l'incanto estivo dell'isola eleva a paradigma dell'illusoria libertà (e felicità) mai raggiunta.
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