Usando una formula biecamente giornalistica: finalmente il post-Pasolini, finalmente un romanzo che è il ribaltamento di Ragazzi di vita, la riabilitazione della gioia dopo le stimmate dell'orrore. Daniele Mencarelli è poeta, come Pasolini, ed è nato nel 1974 ad Ariccia, Roma, un anno prima che Pasolini morisse, in forma infame, sul litorale romano. Anche Mencarelli, che pure ha occhi iniettati nel diamante, non ha paura di andare oltre la soglia, di vedere il male, la violenza, e di lasciarsene travolgere. Mencarelli ha una tensione elettrica verso i perduti, i reclusi nella bestemmia, i patetici dannati. Come Pasolini. Solo che La casa degli sguardi (Mondadori, pagg. 226, euro 19), il suo primo romanzo, non è una catabasi nell'inferno umano - ogni scrittore, infine, voluttuosamente, preferisce narrare una caduta e godere dello scempio - ma il racconto di una resurrezione.
Dietro la carta velina della finzione, Mencarelli narra la sua vita di perduto, ammorbato dalla vita, inebetito dal bere, intontito dal niente, capace di compiere efferatezze. Un amico poeta - che nella realtà è Davide Rondoni - gli offre una via: un lavoro in «una cooperativa di servizi. Farò l'operaio, pulizie e facchinaggio», all'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù. Questo perenne bambino martoriato dall'angoscia di esistere va nel luogo più crudo del mondo, dove i bambini, che ardono di vita, spesso muoiono («Il Bambino Gesù è un luogo di tortura, di maledizione, una trincea aperta da un bisturi, invisibile ai sani»). Redimersi e rinascere comporta tutti i gradi verticali della passione. Daniele passa una giornata a pulire «un'esplosione di merda. La merda ricopre ogni angolo del bagno, fin sulle pareti a non meno di un metro, un metro e venti da terra». Poi sfida il demonio incarnato «in una sala d'autopsie a misura di bambino... Chi dispone gli eventi? Perché davanti ai miei occhi devo vedere, galleggianti dentro barattoli di vetro, pezzi di bambino, alcuni irriconoscibili, altri tremendamente noti come possono esserlo un braccio, una mano, un piede?».
Con devota pazienza, tramortita da strazi, si affaccia Dio sul cranio di Daniele («negarsi la speranza di Dio, qui dentro, non ha possibilità di essere»). E arriva la poesia, inattesa, con la violenza di una tigre («La scrittura esercita una forma di possesso spietata. È incivile. Maleducata. Non conosce giorno, notte, non le importa se mi trovi in mezzo alla gente. Per lei non esiste altra ragione che la sua esistenza, su tutto e tutti»). Il direttore del Bambino Gesù commissiona a Daniele un libro di poesie sull'ospedale pediatrico, un «dono da mandare ai nostri benefattori istituzionali per il prossimo Natale». Il poeta, che nella prima pagina del romanzo arde nell'oblio («non ricordo nulla» è il refrain della vita inghiottita dall'alcol), ora, nell'ultima pagina, si ostina alla memoria, a ripetere i volti e l'amore («voglio ricordare tutto»).
La fiction sbanda nell'autobiografia: Mencarelli, tra i più riconosciuti poeti di oggi (l'ultima raccolta, Storia d'amore, è del 2015) pubblica Bambino Gesù nel 2001. Il romanzo di un poeta, di tracotante bellezza (Roma all'alba: «una magnificenza nasce sotto i miei occhi, un minuto alla volta. La bellezza senza sofferenza alcuna»), mi porta a un concetto assoluto, non assolutorio: i poeti sanno scrivere prosa meglio dei paludati romanzieri. Pensateci. I racconti di Umberto Saba, i romanzi di D'Annunzio e di Pasolini, quelli di Giovanni Testori e di Antonio Porta, le prose di Giorgio Caproni, i testi di Elio Pagliarani, di Andrea Zanzotto, di Emilio Villa. Un contro-canone della narrativa con i contro-cosi.
Soprattutto, però, Mencarelli ci insegna, come può fare solo chi è stato preso a pugni dal vivere, quanto è difficile - e quanto è necessario - scrivere la gioia, descrivere la rinascita. Troppo facile fare i piagnoni nel fango intellettuale.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.