A volte accade anche questo. Un programma può avere successo, e averne per 14 anni di seguito, prima d'incontrare il suo presentatore ideale. È quanto è accaduto a Sfide. Ponendo Alex Zanardi al timone della rassegna di quelli che hanno vinto (o perduto) la gara della vita, Simona Ercolani ha trovato la perfetta figura-simbolo. Oltreché -in una tv già colma di personaggi senza talento, senza spessore, senza storia (talvolta perfino senza un perché) - un personaggio finalmente da ammirare.
Allora, Zanardi: come si trova davanti alla telecamera?
«Mi permette la battuta? Non credo che avrei mai tentato la strada della tv se non avessi capito d'esserci... tagliato. Capito, il doppio senso?».
Lo sa che, meriti sportivi e umani a parte, molti la trovano bravo anche come conduttore?
«So che a qualcuno sembrerà insopportabilmente narcisistico. Ma io sarei un timido. Divento espansivo e comunicativo per reazione. Per questo, al titolo di conduttore preferisco quello di narratore. In fondo, in Sfide io narro storie di altri».
Ma in qualche modo, sia pure indirettamente, anche la sua.
«Certo. Come chiunque faccia un mestiere pubblico. Però io non misuro la mia vita in base all'incidente che nel 2001 mi portò via le gambe. Per me non c'è un prima e un dopo quel fatto, che pure cambiò totalmente la mia vita. C'è la mia vita. Nella quale ho sempre messo la stessa passione, qualunque cosa facessi. Così non è che le gare che ho vinto senza gambe siano state più facili, o difficili, di quelle vinte quando le gambe le avevo. Sono state semplicemente altre gare».
Però conquistare l'oro nell'handbike (la bicicletta per atleti disabili, dove si pedala con le mani) alle recenti Paralimpiadi di Londra, e farlo nel giorno del compleanno di suo figlio, non è impresa da poco.
«La gara l'ho vinta io, d'accordo. Ma la coincidenza che m'ha permesso di dedicare quella vittoria a mio figlio proprio quando compiva gli anni è stata solo una questione di discreto fondoschiena».
In Sfide lei racconta storie di atleti che hanno vinto, o perso, nella gara che combattevano soprattutto contro se stessi.
«Sono tutte vicende di passione, di fede; di grande desiderio di farcela. Farcela, ma non a tutti i costi. L'esasperazione di tanto sport odierno, in cui il risultato è un obbligo e la sconfitta una tragedia, non ha niente a che vedere con l'autentica passione sportiva. A costo d'apparire demodé cito De Coubertin: l'importante non è vincere, ma tentare con tutto te stesso di riuscirci».
E se non ci si riesce?
«Hai vinto la tua gara con te stesso. Che poi è la gara della vita».
Nello sport cos'è il coraggio?
«Il coraggio sportivo è una cosa stupida. Coraggioso non è quello che si butta a occhi chiusi nella sfida impossibile. Quello è il temerario. Cretino, perdipiù. Coraggioso è quello che calcola tutte le probabilità, che misura le proprie forze e che affronta il rischio con un margine sicuro - per quanto esiguo - di fiducia nelle proprie capacità. È intelligenza, esperienza; anche furbizia. Io, ad esempio, non sono coraggioso. Sono solo furbo».
E il coraggio nella vita?
«È una questione molto più complicata. Diciamo che se ti sei allenato a essere coraggioso come atleta, ci sono probabilità che tu riesca a spuntarla anche nelle gare di tutti i giorni».
Lei che è un simbolo di eroismo, quale degli eroi di Sfide ha specialmente ammirato?
«Quello di cui ci occuperemo lunedì prossimo, Walter Bonatti. Mi ritrovo molto nel suo carattere, nella sua avventura umana, più ancora che sportiva».
E quali sono i suoi idoli sportivi?
«Gilles Villeneuve su tutti. Da ragazzo avevo in camera il poster della sua Ferrari numero 27, di traverso sul cordolo. Ci passavo pomeriggi interi a fantasticare. Poi Ayrton Senna, Nigel Mansell. Pur non essendo patito di calcio ho molto ammirato Baggio e Del Piero. E anche se non condivido tutti i valori del personaggio, tifavo Alberto Tomba».
Prima lo sport, poi la televisione... E il cinema? Nessuno le ha proposto una fiction?
«Ci mancherebbe solo questa. No, per favore. Non prendiamoci troppo sul serio».
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