È probabile che il nome di Gianfranco Miglio, venuto a mancare vent'anni fa, ai più giovani non dica molto. Eppure c'è stato un momento che ha visto il professore comasco assurgere agli onori della cronaca: prima come fiancheggiatore intellettuale della Lega Lombarda (in seguito ribattezzatasi Lega Nord), poi quale figura centrale all'interno del movimento stesso e, infine, in qualità di battitore libero (dopo la rottura con Umberto Bossi, che in quegli anni era il «padre padrone» del partito). Ben al di là di questo, Miglio è stato comunque uno dei protagonisti intellettuali dell'Italia di secondo Novecento e un pensatore originalissimo: un teorico che ha riflettuto con audacia sulle istituzioni della modernità e ha indicato nella teoria neo-federale una vera alternativa alle logiche della sovranità.
Professore ordinario di Scienza della politica e preside di facoltà all'Università Cattolica di Milano, Miglio si è occupato da studioso di vari ambiti: dalla storia delle idee politiche al diritto costituzionale, alla storia dell'amministrazione pubblica. A distanza di anni è però sempre più chiaro come la sua eredità principale sia da riconoscere nella sfida che egli ha lanciato alle istituzioni e alla cultura politica della modernità. Dopo avere contributo a importare in Italia uno tra i giganti della filosofia del diritto e della scienza politica del secolo scorso, Carl Schmitt, egli ha compreso come la riflessione radicale elaborata dall'autore de Il Nomos della terra dovesse essere soltanto un punto di partenza, dal momento che bisogna incamminarsi su sentieri ben lontani da quelli percorsi dallo studioso tedesco. E così se egli da Schmitt ricava quella pars destruens che gli serve a demitizzare lo Stato moderno e la sua pretesa identificazione con il diritto, al tempo stesso egli sviluppa una pars construens innovativa e che continuerà a suscitare riflessioni negli anni a venire. Molto era già chiaro in quelle Lezioni di scienza politica che, curate da Alessandro Vitale, sono state pubblicate negli scorsi anni dal Mulino e in cui è affermata la radicale opposizione tra due forme di obbligo: quello politico (che prescinde da ogni forma di adesione e consenso) e quello giuridico (basato sulla dimensione contrattuale). Contro la pretesa identificazione kelseniana tra statualità e l'ordinamento, Miglio riafferma la polarità irriducibile tra diritto e politica, evidenziando la necessità di salvaguardare spazio alle intese sottoscritte e alla creatività della società civile e del sistema produttivo.
Da realista, egli si sforza di guardare la realtà così com'è: collocandosi in quella linea che conduce da Tucidide a Machiavelli e arriva fino agli elitisti italiani. Oltre a ciò, egli constata che lo Stato è ormai un'entità in larga misura inadeguata e disfunzionale, che crea molti più problemi di quanti non ne risolva. E mentre tanti suoi colleghi si attardano ad esaminare le forme che lo Stato democratico e costituzionale è venuto assumendo in Occidente, egli avvia una riflessione di grande coraggio che giunge a mettere in discussione dogmi incontestati. È a partire da qui, e non già dallo sviluppo di temi liberali, che trae originale la sua peculiare ispirazione libertaria. Se arriva a riproporre Henry David Thoreau e le sue pagine in difesa della disobbedienza civile è perché comprende come la civiltà e la libertà si collochino nello spazio creativo, produttivo e imprenditoriale di quanti si battono ogni giorno per soddisfare il prossimo, anche e soprattutto fronteggiando le pretese tendenzialmente illimitate dell'apparato politico-burocratico. Il suo stesso «nordismo» deriva da qui. Se negli anni Ottanta egli si schierò dalla parte dei piccoli movimenti autonomisti settentrionali che iniziavano a ottenere consensi, era perché comprendeva che quei primi risultati elettorali inviavano un segnale importante, dato che stava per delinearsi la rivolta di una parte significativa del mondo del lavoro, stufo di ricatti e penalizzazioni.
Quel momento della nostra storia, legata al declino della Prima Repubblica, lo spinse pure a riscoprire un vecchio amore di sempre: quello per gli ordini federali. Originario di Como e cresciuto quindi a pochi passi dalla Svizzera, nei suoi anni giovanili Miglio aveva fatto parte di quel gruppo di antifascisti e federalisti lombardi che si riuniva attorno alla rivista Il Cisalpino. Ancora una volta, era il suo realismo che lo portava a comprendere la necessità di avere governi locali: meglio informati sulla realtà sociale e più sintonizzati con le esigenze e la cultura della popolazione. C'era però anche altro. La sua preferenza per l'obbligo contrattuale ebbe un ruolo importante nel portarlo a ripensare la politica in termini federali. Negli ordini negoziati da libere comunità locali egli vedeva infatti un'alternativa allo Stato moderno, sviluppatosi sul tronco delle monarchie assolute. Se la Francia del Re Sole aveva generato le categorie che ancora oggi tutti noi in larga misura condividiamo entro istituzioni che si vogliono appunto sovrane, per Miglio l'unica alternativa percorribile consisteva nel tornare a quelle logiche federali e contrattuali che avevano permesso la nascita e il formidabile successo delle Province Unite olandesi, dell'Hansa tedesca, della federazione svizzera, degli Stati Uniti d'America delle origini.
Miglio era convinto che, prima o poi, lo Stato moderno sarebbe collassato su stesso, dato che esso moltiplica debiti e distrugge una quantità crescente di ricchezze, arricchendo i parassiti a scapito dei produttori. A distanza di vent'anni, quell'ipotesi deve apparirci ancor più fondata di quanto non apparisse allora.
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