Guidalberto Bormolini è stato molte cose nella vita: operaio di una falegnameria, in seguito liutaio. Attualmente è consacrato e sacerdote in una comunità di meditazione cristiana: i Ricostruttori nella preghiera. Laureato alla Pontificia Università Gregoriana, ha conseguito la Licenza in Antropologia Teologica ed è dottorando in Teologia Spirituale presso l'Ateneo S. Anselmo a Roma. Si occupa in special modo di accompagnamento spirituale dei morenti ed è docente al Master «Death Studies & the End of Life» dell'Università di Padova. Ovvero è un tanatologo, parola moderna per quella disciplina antichissima che cerca di accompagnare l'uomo verso una buona morte, verso un cosciente e sereno distacco dalla vita. In questo percorso ha accompagnato anche personaggi noti come David Sassoli o Franco Battiato.
Domenica 25 settembre dialogherà, ad Asolo, all'interno del Festival del Viaggiatore sul tema: «Là dove tutto sembra finire». Abbiamo chiacchierato con lui su questo tema difficile, come si arriva sino alle porte del dopo. Quelle porte che la nostra società di oggi spesso fa finta di non vedere e rimuove. Ma su cui Battiato ha spesso riflettuto nelle sue canzoni e nei suoi scritti...
Padre Bormolini cos'è esattamente un tanatologo?
«Un tanatologo studia la morte e il morire come fenomeno umano, cerca di capire come le persone si approcciano alla morte e le accompagna. Questo è anche un passaggio fondamentale della cura in quella fase, fase che tutti dovremo affrontare».
Lei è anche un religioso: il suo approccio è quello, un approccio religioso?
«Io sono un religioso e sono convintamente religioso, ma il mio approccio al fine vita è laico. Cerco di contribuire ai bisogni spirituali di chi si avvia verso la fine dell'esistenza. Questo spesso passa da un recupero di percorsi religiosi che si sono interrotti o dallo scoprirne di nuovi. Ma non necessariamente. Il nodo è cercare uno sguardo nuovo sulla vita e sulla morte. Ormai è chiaro anche dal punto di vista meramente medico che non si può affrontare la malattia grave senza intervenire contemporaneamente su corpo, psiche, spirito».
In questo tipo di percorso lei ha accompagnato anche Franco Battiato...
«Battiato si interessava al tema molto prima che la malattia lo colpisse, per lui era un tema di importanza sostanziale. Mi contattò molti anni fa dopo aver letto delle cose che avevo scritto. Siamo diventati amici e ho collaborato con lui per la realizzazione del documentario Attraversando il bardo. Sguardi sull'aldilà. La riflessione sulla morte per lui era fondamentale. Quindi quando la sua malattia è peggiorata, come amico, non per semplice servizio, sono stato presente. Franco meditava tantissimo, ha fatto un percorso di assoluta coscienza».
Come si muoveva Battiato su questi temi?
«Il suo era un percorso profondo iniziato sin dalla gioventù. Riflessioni che sono poi entrate a ripetizione nella sua produzione artistica. Quello che lui desiderava comunicare era che la morte non è il termine della vita ma qualcosa dentro la vita. Spesso riflettevamo sul fatto che noi moriamo infinite volte nel corso della nostra vita. Nelle religioni e nelle culture antiche erano presenti moltissimi riti di passaggio che consentivano di elaborare questo mutamento, rendendo chiaro che anche la morte finale è solo un passaggio ad un livello di vita superiore. Franco questo lo sentiva».
Battiato ha affrontato il passaggio sereno?
«Sì, su questo posso tranquillamente dire di sì, mantenendo tutta la privacy che è necessaria: si sentiva pronto sul serio, aveva fatto un percorso profondo, rigoroso».
Quale delle riflessioni di Battiato sul passaggio le è rimasta, cosa le ha lasciato?
«Nella vita si impara sempre dagli altri ma in questo caso non si tratta tanto di parole quanto di comportamenti. Di Franco mi rimarrà il suo distacco dal lusso, dalle cose, la sua umiltà, la sua assoluta mancanza di vanità. Questo mi resterà...».
Si può quindi affrontare la morte bene, in una maniera serena?
«Serve un percorso culturale che, ad esempio, nei Paesi anglosassoni viene portato avanti in maniera più sistematica dall'infanzia. La morte va integrata nella vita. La morte va vista come un'apertura di possibilità, attraverso un percorso meditativo, come nelle culture antiche... Basta pensare a tutti quei rituali in cui ad esempio un ragazzo muore per risvegliarsi uomo. Su questo Battiato ha riflettuto tantissimo».
Si può essere anche ironici sulla morte,
sulla fine?«Le tradizioni popolari vivono di ironia sulla morte, di sdrammatizzazione della morte, ci sono begli studi sul tema come quello di Carlo Lapucci: ciò che è spirituale deve poter anche essere spiritoso».
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