È morto ieri, a causa di complicazioni legate alla Covid-19, uno dei più grandi registi contemporanei, il sudcoreano Kim Ki-duk che si trovava in Lettonia, forse per acquistare una casa a Jurmala, e che tra otto giorni avrebbe compiuto 60 anni.
Si conclude così la parabola del regista che aveva vinto il Leone d'Oro nel 2012 con il film Pietà alla Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, festival dove si sentiva a casa (nel ritirare il premio aveva intonato una canzone popolare coreana davanti a uno sbigottito Michael Mann presidente di giuria) e che ha contribuito alla sua fama internazionale a partire dall'edizione del 2000, già diretta da Alberto Barbera, in cui venne presentato in concorso L'isola che, in patria, dove non era particolarmente amato, fu aspramente criticato anche dalle femministe.
Ma il coriaceo regista, figlio di padre invalido e mamma cieca, entrato in seminario ma subito dopo arruolatosi in Marina e poi partito per la Francia dove ha fatto il disegnatore di strada, ha continuato a girare il suo cinema connotato da sesso e violenza. Con Bad Guy (2001) sciocca ancora una volta il publico femminile con la storia di un uomo che, insultato da una studentessa, la sequestra e la vende a un bordello. Due anni dopo però Kim Ki-duk cambia registro con Primavera, Estate, Autunno, Inverno e ancora Primavera (2003), ambientato in un tempio buddista e, l'anno dopo, con ben due film, La Samaritana, premio per la regia al festival di Berlino, e il meraviglioso Ferro 3 - La casa vuota premiato, sempre per la regia, al festival di Venezia dove nel 2016 ha presentato Il prigioniero coreano, un atto di accusa sulla latente belligeranza tra le due Coree.
Regista particolarmente prolifico, nel 2007, dopo l'incidente quasi mortale capitato a
una sua attrice sul set di Dreams, si ritira sui monti e si scontra con i propri fantasmi, in un processo di autoanalisi che filma nel suo documentario definitivo, Arirang, vincitore nel 2011 di Un Certain Regard a Cannes.
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