Napoleone (ri)esiliato dopo due secoli. Dalla "cancel culture"

In una società che ha dimenticato il concetto di gloria, Bonaparte subisce attacchi antistorici

Napoleone (ri)esiliato dopo due secoli. Dalla "cancel culture"

Il 5 maggio di due secoli fa si spegneva a Sant'Elena, uno scoglio sperduto nell'Atlantico dell'emisfero australe, Napoleone Bonaparte, l'ufficiale di artiglieria uscito dalla piccola nobiltà corsa che aveva sposato la Rivoluzione, il generale che aveva sbaragliato gli eserciti delle maggiori potenze europee, che aveva portato gli ideali e il sapere dei Lumi per tutto il continente sino all'Egitto, l'imperatore che aveva fatto della Francia la più grande potenza continentale. Caduto una prima volta a Lipsia, risorto dopo l'esilio all'Elba e sconfitto definitivamente a Waterloo, si era consegnato agli Inglesi, i suoi maggiori nemici, quelli che non aveva mai potuto sconfiggere. Nell'isola sperduta, l'ordine era quello di guardarlo a vista, e così fece il governatore sir Hudson Lowe, che di suo aggiunse severità e odiose angherie per rendergli ancora più duro l'esilio. Morì per un probabile cancro allo stomaco. Le sue ultime parole furono: «Testa esercito». Fino alla fine, ricordò di essere stato uno stratega supremo e un militare che aveva un senso poetico della gloria. L'ultimo sgarbo di Hudson Lowe fu quello di impedire che sulla pietra tombale fosse inciso il termine «Imperatore». Così sulla tomba si lesse soltanto: «Qui giace».

Non so se Alessandro Manzoni fosse al corrente di questo particolare: ma il celeberrimo attacco della sua poesia intitolata Il 5 maggio potrebbe farlo pensare: «Ei fu». Non c'è bisogno del soggetto, tanto il soggetto è immenso e noto al mondo intero. Per noi italiani, la morte di Napoleone ha il ritmo sdrucciolo e tambureggiante dell'inno del Manzoni. Era la poesia che tutti studiavamo a memoria a scuola, e così famosa che non mancarono di fiorirne parodie dissacranti. In realtà, l'autore dei Promessi sposi qui vola alto: scrive ispirato, si dice in tre giorni, mentre la moglie Enrichetta alimenta suonando al pianoforte la sua vena. Manzoni è davvero colpito dalla notizia, che arriva a Milano il 19 luglio. E vede colpita, attonita, la terra intera. Non aveva mai dedicato una riga di lode al Napoleone vittorioso, né una riga di insulti a quello sconfitto: «vergin di servo encomio/ e di codardo oltraggio», soltanto ora potrà sciogliere un canto alla tomba di questo «uomo fatale». L'epopea napoleonica trova in Manzoni un cantore appassionato: in mirabile, lampeggiante sintesi ce ne mostra la geografia («Dall'Alpi alle Piramidi»), la psicologia («la procellosa e trepida/ gioia di un gran disegno/ l'ansia di un cuor che indocile/ serve, pensando al regno»), la storia («la fuga e la vittoria/ la reggia e il tristo esilio»). E di Napoleone in esilio «in sì breve sponda», oggetto di inestinguibile odio e di indomato amore, riesce a immaginare in maniera magistrale il cumulo di memorie che lo assale («il lampo dei manipoli/ e l'onda dei cavalli»). Sinché una mano dal cielo non gli porta il conforto della Fede. La conclusione dell'inno del Manzoni ha per protagonista la Provvidenza divina, e un tono biblico: «il Dio che atterra e suscita/ che affanna e che consola». Il Dio la cui gloria è l'unica che non tramonta. Ma quella di Napoleone, «fu vera gloria?». La domanda manzoniana è destinata a rimanere senza risposta.

Ugo Foscolo salutò Bonaparte come liberatore, ma poi dovette ricredersi dopo il trattato di Campoformio, che vendeva Venezia all'Austria. Questo doppio aspetto dell'azione di Napoleone, per un verso rivoluzionaria, per l'altro soggetta a una logica slegata dalla morale e alla volontà di potenza, fu dunque chiara anche ai contemporanei.

Dopo due secoli, in una società che ha dimenticato completamente il concetto di gloria, e anzi tende a colpevolizzare qualunque azione alta e ideale, Napoleone subisce attacchi ben più feroci. Ha fatto scalpore quello della studiosa di origine haitiana Marlene L. Daut che sul New York Times ha definito Napoleone «il più grande tiranno, una icona della supremazia bianca». Finirà dunque anche lui sotto la scure della cancel culture? In effetti, la cultura della cancellazione può diventare la cancellazione della cultura, se non è fermata in tempo. Definire Napoleone «tiranno» è una semplificazione ignorante. Definirlo «icona della supremazia bianca» una giravolta antistorica e suo malgrado razzista. Con questo criterio, tutto ciò che è bianco, tutto l'Occidente, da Dante a Goethe, da Colombo a Garibaldi, andrebbe spazzato via. A qualcuno forse farebbe comodo?

Napoleone aveva un sogno imperiale, non imperialista: voleva una Europa unita dallo spirito dei Lumi e, pur essendo versato nella matematica, che mise a servizio di un utilizzo innovativo della artiglieria, aveva una passione letteraria fortissima, e si sentiva un Prometeo che aveva rubato il fuoco al cielo e lo aveva dato alla Francia: questa grande nazione in cui non finì mai, lui corso di origini genovesi e toscane, di sentirsi straniero, ma a cui tributò il massimo dell'amore sino a dire, come stabilendone un destino: «La parola impossibile in francese non esiste».

Dominique de Villepin, in uno dei suoi libri dedicati a Napoleone, lo definisce «figlio di Ossian e discepolo di Machiavelli». Dunque il più grande condottiero dei tempi moderni ha radici tutte nella cultura italiana: perché i Canti di Ossian, la saga celtica e preromantica di James Macpherson, li lesse e li tenne sempre con sé nella traduzione di Melchiorre Cesarotti. E dal segretario fiorentino imparò la autonomia della politica dalla morale. Ma non fu machiavellico per condurre in porto qualche contorto traffico di potere, lo fu per inseguire un incredibile sogno di grandezza. Finito sugli scogli di Sant'Elena.

Chissà se davvero avvertì il Dio di cui parla

Manzoni sul suo letto di morte. Ma è certo che volle morire nella fede in cui era nato. Il piccolo nobile corso che avrebbe potuto passare la vita tra gli orti e gli uliveti della sua terra, e invece cambiò la storia del mondo.

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