Non era un americano medio, Neil Armstrong, il primo uomo a mettere piede sulla Luna. Non era nemmeno un «americano tranquillo», del tipo immortalato da Graham Greene nell'omonimo romanzo, il patriota in buona fede che pianificava stragi di civili in Vietnam pensando così di sconfiggere i vietcong... Apparteneva piuttosto a quel tipo umano che puoi trovare nel cuore di ogni nazione civile, sufficientemente toccato dal dolore, la morte di una figlia piccola, per essere vaccinato contro l'ambizione, coscienzioso quanto introverso, senza per questo essere musone, amante del rischio se messo al servizio di un'idea, un progetto, una speranza, non la pura e semplice vita spericolata...
La corsa nello spazio degli anni Sessanta, si sa, nacque per motivi politico-ideologici: la Russia comunista aveva iniziato per prima ad andare in orbita, gli Stati Uniti liberal-capitalisti rilanciarono la posta, mettendo sul piatto un obiettivo mai sino ad allora pensato, l'allunaggio, appunto. «Così azzeriamo il loro vantaggio», spiegherà il capo della Nasa incaricato dei programmi Gemini e poi Apollo: «Dovranno ripartire anche loro da zero».
First Man, il film di Damien Chazelle che ha aperto in gran spolvero la 75° edizione della Mostra del Cinema di Venezia, racconta anche questo, il delicato intreccio fra propaganda e scienza nel quale tutti sono un po' vittime e un po' carnefici, il governo che vorrebbe risultati, ma senza che l'opinione pubblica possa contestarne i costi, anche in termini di vite umane, i fautori del progetto, disposti a garantirne l'assoluta fattibilità ben sapendo che le probabilità reali di successo sono dell'ordine del 50 per cento. «Andremo sulla Luna perché vogliamo fare le cose difficili, non le cose facili», aveva detto ancora nel 1963 il presidente Kennedy, e in fondo sarà proprio così, la difficoltà che aguzza l'ingegno e poi si trasforma in epica.
Chazelle è bravissimo proprio nel dare conto della rudimentalità dell'impresa: mezzo secolo dopo, e con la tecnologia che ormai ci esce dalle orecchie, si resta stupefatti a vederne una ancora senza computer, la manualità di gran parte delle operazioni, l'artigianato di capsule spaziali e moduli lunari, l'elemento umano comunque sovrano nel momento delle scelte e quanto alle chances di riuscita.
Sotto questo profilo, la personalità di Armstrong risulta ancora più affascinante e Ryan Gosling la rende benissimo perché ha di suo un fascino inquieto, un esserci senza per questo interamente mostrarsi. Pilota civile e ingegnere progettista e collaudatore, già reduce dalla Corea dove aveva pilotato cacciabombardieri, Armstrong era stato a un certo punto lasciato a terra dall'aviazione americana: la figlia minore, ancora piccola, aveva un tumore e ciò sembrava pregiudicare l'attenzione paterna in volo: «Si distrae troppo e non conta che poi rimedi all'errore», era stato il giudizio dei suoi superiori. Partecipare alla selezione per il programma spaziale era stata la sua risposta, la voglia di non mollare, il desiderio di andare comunque avanti, superando poi anche lo strazio per la scomparsa di quella bambina così tanto amata.
Rispetto all'altro «uomo della Luna», Buzz Aldrin, spaccone e un po' vanesio, Armstrong era un solitario, uno chiuso nel suo mondo degli affetti per paura che di quegli affetti potesse all'improvviso essere privato, come già gli era accaduto.
Costruendo un film abbastanza tradizionale, il combinato disposto di vita privata, moglie, figli, scuola, svaghi, e di vita pubblica, le missioni, il cameratismo, gli incidenti mortali, Chazelle racconta quell'eroismo sotto tono che nasce da idee di grandezza e di servizio civile, il
«piccolo passo per un uomo» che si trasforma in «grande balzo per l'umanità» di cui proprio Armstong parlerà mettendo piede lì dove nessuno aveva mai pensato si potesse realmente andare, un altro pianeta, in tutti i sensi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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