Se "Romanzo di una strage", il film su massacro di piazza Fontana diretto da Marco Tullio Giordana, fosse sottoposto ad una analisi filologica come quelle cui ci si dedica in genere per i film in costume, alla caccia di dettagli incongruenti o fuori tempo, ci si potrebbe sbizzarrire quasi all'infinito, tante sono le imprecisioni storiche: come rilevare che negli anni Settanta la scritta "La legge è uguale per tutti" nelle aule di tribunale non c'era affatto, essendo stata imposta dal Guardasigilli Castelli trent'anni dopo; che in quegli stessi anni un giudice che dirigesse l'udienza con il cappelluccio in testa e mantenendo l'ordine in aula scampanellando, avrebbe suscitato una certa ilarità; che era impensabile che un questore si rivolgesse a un commissario dandogli del Lei, e che del Lei si dessero parlando in privato il ministro degli Esteri Aldo Moro e il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, fino a poco tempo prima collega di governo dello stesso Moro.
Ma sono per l'appunto dettagli un po' pignoli, nei quali la verità storica può essere sacrificata alla libertà creativa della fiction. Ma fiction, a dispetto del titolo, il "Romanzo" di Marco Tullio Giordana - che ancora prima dell'uscita nelle sale, fissata per il 30 marzo, sta suscitando riflessioni, amarcord e qualche polemica - non è affatto: perché con i loro nomi veri vi compaiono i protagonisti di quei fatti. E quindi l'ambizione di Giordana è indubitabilmente quella di raccontare in forma di film la storia di un delitto capostipite nella strategia della tensione, e delle verità cancellate o emerse nel corso delle indagini giudiziarie.
Ed è questo il vero punto debole del film, che si avventura sulle più impervie di quelle ricostruzioni, ma non ha il coraggio di seguirle fino in fondo e alla fine mischia un po' tutto quanto, col risultato che alla fine uno spettatore che ha meno di quarant'anni rischia di non capirci niente: o di capire male, il che è peggio. Su piazza Fontana, come è noto, si sono affastellate nel corso dei decenni processi, inchieste, controinchieste. La verità giudiziaria, allo stato degli atti, è semplice: per la giustizia a fare mettere la bomba furono gli ordinovisti veneti Franco Freda e Giovanni Ventura, e un pezzo dei servizi segreti si adoperò in seguito per coprire le loro responsabilità. Ma Freda e Ventura, improvvidamente assolti nei processi degli anni Ottanta, non possono più essere condannati, e così la strage, in quanto tale, resta senza colpevoli condannati.
C'è una verità giudiziaria, ma - per così dire - priva di conseguenze concrete. L'unico condannato in via definitiva resta Gianadelio Maletti, ufficiale dei servizi segreti, da tempo riparato in Sudafrica dopo la sentenza che lo dichiarava colpevole di favoreggiamento. Tutto il resto, emerso durante le inchieste bis degli anni Duemila - la cellula padovana di Ordine Nuovo, i settori delle forze armate, eccetera -è stato ritenuto da sentenze definitive del tutto inconsistente. Nulla impediva che il film mettesse in discussione quelle sentenze, abbracciando la ricostruzione che a Milano il giudice Guido Salvini e i pm Grazia Pradella e Massimo Meroni hanno fornito nelle loro inchieste.
Ma Giordana si è spinto più in là. Prima ha chiesto al giudice Salvini di partecipare alla stesura della sceneggiatura. Poi ha litigato con Salvini e ha acquistato i diritti del libro di Paolo Cucchiarelli, cronista dell'Ansa, che in un tomo ponderoso ha proposto una tesi del tutto innovativa: quella della doppia bomba, una quasi innocua piazzata dagli anarchici e destinata ad esplodere a banca chiusa, e una messa lì accanto da esponenti della ultradestra e dei servizi deviati per rafforzare tragicamente la deflagrazione dell'altra. E' questa idea della doppia bomba la chiave portante del film. Peccato che nel frattempo l'indagine ter della Procura di Milano, aperta sulla base del libro di Cucchiarelli per verificarne la fondatezza, si stia avviando alla conclusione con un totale nulla di fatto. E ancora più peccato che Giordana non abbia il coraggio di sposare la tesi fino in fondo, ipotizzando che almeno la prima bomba sia stata messa davvero da Pietro Valpreda, l'anarchico arrestato nell'immediatezza dei fatti. Invece Valpreda - che pure viene dipinto dal film come un personaggio oscuro e un po' cialtrone - ne esce anche stavolta scagionato, e i postini della prima bomba vengono pure essi indicati vagamente in personaggi dell'ultradestra e dei servizi, che si sarebbero quasi incrociati nell'affollatissimo salone della banca con altri emissari dello Stato deviato arrivati a portare la seconda bomba.
Insomma, un pasticcio. Sullo sfondo brilla per assurdità la figura di Aldo Moro, astuto e navigato uomo di potere, trasformato da Fabrizio Gifuni in una specie di Padre Pio sofferente e visionario. E, ben più grave, l'ombra buttata sul brutale assassinio del commissario Luigi Calabresi, assassinato da un commando di Lotta Continua, che nel film di di Giordana paga invece con la vita la sua intuizione che si dovesse indagare sul lato oscuro dello Stato. Un pasticcio, va detto, ben girato e ben recitato, a dispetto di alcuni schematismi: il cronista coraggioso, i veneti che dicono "ostrega", eccetera.
Ma nella sala milanese dove questa mattina è stata proiettata l'anteprima c'è un solo cronista di quegli anni: Ibio Paolucci, dell'Unità, testimone diretto di quei fatti. Che assiste in disparte, con l'aria sempre più perplessa. E, all'uscita, a chi gli chiede: Ibio, ti è piaciuto?, fa una smorfia e risponde lapidario: "No!".- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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