Nell'Italia cinquecentesca animata da nobildonne quali Isabella d'Este e Lucrezia Borgia o letterate come Veronica Gambara, ci fu una badessa di spiccato intelletto e altrettanto fiuto nello scovare talenti. Si chiamava Giovanna da Piacenza. Bambina prodigio, nata parmigiana dalla famiglia Bergonzi da parte di madre e piacentina da parte di padre, colta e curiosa, fu badessa a Parma dal 1507 al 1524. La sua storia nulla ha a che fare con i dolori e i pruriti della clausura: fu più una duchessa che una monaca. Decisionista e autorevole, trasformò il monastero benedettino di San Paolo, fondato nell'anno Mille dal vescovo Sigefredo II, in raffinata corte rinascimentale dove educare le poche e selezionate monache ammesse per lignaggio. Ora et labora con classe: nei diciassette anni della sua reggenza ridisegnò gli spazi del monastero e per sé stessa pretese il meglio, ovvero un grande appartamento, un salone e cinque stanze, per ricevere in maniera adeguata gli ospiti, giacché era dispensata dalla clausura. Una delle sale, progettate da Giorgio Erba, fu decorata dall'Araldi, che era l'artistar della Parma del tempo (ed era stato a Milano a vedere Leonardo al lavoro): la ammiriamo oggi infarcita di citazioni bibliche, in latino e in greco, e leggende pagane. La volta è un tripudio di colore: candelabri su sfondo blu, con dame che combattono draghi e mostruosità varie. Ci sono persino due piedi senza corpo che camminano sulle acque, a simboleggiare il peccato di superbia di cui si sono macchiati Adamo ed Eva, che scorgiamo in un tondo poco distante. La badessa Giovanna educava le giovani e la sua corte a suon di rebus e acronimi in pittura, in una felice miscellanea tra sacro e profano.
Questa di Giovanna è solo una delle tante storie segrete di Parma, città bella, placida, colta e riservata: ora, come risarcimento per l'anno pandemico passato che ha bloccato ogni progetto, si rilancia anche per il 2021 come Capitale Italiana della Cultura, svelando «il gioiello della badessa Giovanna», uno dei capolavori nascosti del nostro Cinquecento. È una stanza speciale del convento: si chiama Camera di San Paolo e porta la firma di Antonio Allegri alias Correggio. Narrano infatti le cronache che nel 1519, grazie ai contatti del cognato, la badessa Giovanna chiamò il giovane pittore per affrescare la stanza «alla maniera moderna». Lo spazio, quasi cubico, è decorato sulla cupola con un illusionismo da far girar la testa. Correggio si trovò la volta già suddivisa a spicchi e trasformò le modanature in canne di bambù che paiono reggere il pergolato dipinto, da dove spuntano putti giocosi. Del resto lui - nomen omen - è l'Allegri e la sua è una pittura laeta. Sul camino svetta Diana, dea (casta) della caccia: un affresco che dimostra, diremmo oggi, tutto l'empowerment della badessa Giovanna. Quando cinque anni dopo, morta la donna, il monastero chiuse le sue porte al mondo, il lavoro del giovane Correggio venne dimenticato per essere riscoperto solo nel Settecento dal pittore tedesco Anton Raphael Mengs. Secondo Maria Teresa Guerra Medici, che lo racconta in Il soffitto dipinto (Enciclopedia delle donne), l'opera fu in realtà volutamente censurata perché giudicata imbarazzante quale ritratto di una religiosa: non era, insomma, un buon biglietto da visita per chi avrebbe consegnato all'eternità le vorticose decorazioni del duomo di Parma.
Quel che conta per noi oggi è che, dopo anni di incuria e aperture a singhiozzo, la Camera di San Paolo passa a gestione comunale e apre al pubblico con regolarità: un regalo di questa primavera dell'arte parmense (tutto il programma è su parma2020.it) che va dalla mostra di Fornasetti alla Pilotta, complesso museale da non perdere (al suo interno, anche la seducente Scapigliata di Leonardo, esposta in un nuovo allestimento) a quella sul design all'Abbazia Valserena, dalle opere di Modigliani alla Fondazione Magnani Rocca di Traversetolo alla suggestiva esposizione su Ligabue e Vitaloni a Palazzo Tarasconi. Senza dimenticare la sorpresa di trovare nel Battistero, fino a fine agosto, le statue dei mesi e delle stagioni dell'Antelami, di solito allocate nell'alto loggiato interno, a terra per un efficace vis-à-vis con chi entra. Usciti da Parma e superata la Val di Taro, se si risale verso nord lungo la via Emilia s'incrocia a Fontanellato il Labirinto della Masone, il più grande del mondo nel suo genere: nato da un'idea di Franco Maria Ricci - che fu editore, designer, collezionista d'arte, bibliofilo geniale (aggettivo, per una volta, calzante) - aperto al pubblico dal 2015, è un elegante dedalo verde che si stende su otto ettari. La stagione è perfetta per una sosta anche perché da oggi e fino al 26 settembre ospita «Umberto Eco, Franco Maria Ricci, Labirinti.
Storia di un segno», un percorso tra allestimenti scenografici digitali, prestiti di rilievo (come il Ritratto di Bartolomeo Prati di Girolamo Mazzola Bedoli, il codice di Lelio Pittoni dalla Biblioteca di Firenze o Carceri d'invenzione con le stampe di Piranesi) e una serie di opere labirintiche del bravo artista veneziano Giovanni Soccol.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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