«L'astronomo esercita il secondo mestiere più vecchio del mondo», non c'è niente da fare, agli astronomi questa cosa piace tanto, ma proprio tanto, dirla in giro e io non ho mai capito il perché, forse perché li fa sentire più sexy, non lo so. Quello che invece ho capito leggendo il nuovo libro di Piero Bianucci, Pellegrini dell'universo (Solferino), una specie di miniera enciclopedica di informazioni, è tutto ciò che non sapevo sul passato, il presente e il futuro dell'esplorazione spaziale, sulle sfide legate all'abitare l'universo e a indagarne gli angoli nascosti in cerca di vita (extra)terrestre.
Allora chi sono i pellegrini dell'universo? Per rispondere alla domanda si segue l'innata vocazione dell'essere umano a esplorare, che inizia con i primi viaggiatori per i quali la Terra era ancora in parte un universo sconosciuto, passando per i miliardari che per quattro minuti di brivido, un paio di selfie, qualche vomitata in microgravità e status di astronauta farlocco sono disposti a sperperare conti in banca, fino ad andare «verso l'infinito e oltre», come direbbe Buzz (non Aldrin, il secondo uomo a camminare sulla luna, ma) Lightyear, quello di Toy Story.
In questo libro, in realtà, si trovano risposte a moltissime altre domande, come per esempio una che da piccola mi aveva sempre angosciata (per favore non facciamoci troppe domande sul tipo di domande che mi angosciavano da piccola): dove vanno a finire i vari stadi dei lanciatori che vediamo staccarsi durante le scenografiche dirette e i vari satelliti vecchi, interi o a pezzi, che si fanno rientrare nell'atmosfera terrestre alla fine delle loro produttive, si spera, vite satellitari? E ho scoperto che finisce tutto in un cosiddetto Punto Nemo, cioè il luogo più remoto e più lontano dai centri abitati, nell'oceano Pacifico, dove, a quattromila metri di profondità si vanno accumulando relitti spaziali.
In realtà quasi tutto, perché mi ricordo di aver visto un assurdo documentario (per favore non facciamoci domande sui tipi di documentari che mi facevano vedere da piccola) dove pastori kazaki partivano all'alba attraverso la steppa per avvistare e recuperare i pezzi di rifiuti spaziali in discesa dopo i lanci dal cosmodromo di Bajkonur. Il fine ultimo era ovviamente rivendere i preziosi metalli di cui questi rifiuti sono costituiti, ma uno dei principali e migliori immediati utilizzi dei pezzi di serbatoio recuperati era quello di pentoloni per minestre: il trucco dello chef kazako, me lo ricordo bene, consisteva nell'abbondare con la cipolla per contrastare il pungente retrogusto di idrazina.
Zuppe di cipolle a parte, negli abissi di questa poetica discarica spaziale nei mari del sud finirà, a tempo debito, anche una parte delle quattrocento tonnellate della Stazione Spaziale Internazionale, attraverso la quale veniamo condotti in un tour virtuale, nodo per nodo, con anche interessanti aneddoti storici sul tipo di acqua preferita dagli astronauti americani (acqua di fusione dei ghiacciai da una sorgente di montagna in Val di Susa) e dai cosmonauti russi (acqua più ricca di sali raccolta da un pozzo di pianura vicino a Collegno), tutto ciò prima che si finisse tristemente con tagli di budget a riciclare sudore e pipì.
E, ancora una volta, scopriamo tutto quello che non sappiamo: io, per esempio, credevo di essere già stata esposta nella mia breve vita a un sufficiente flusso di informazioni su stelle di neutroni e astronauti da non dover più imparare nulla e invece mi sbagliavo, soprattutto sugli astronauti. Ho ricevuto in prima persona resoconti, fino nei più sordidi dettagli che a me non sono stati risparmiati ma che io vi risparmierò, su come si faccia pipì (e altro) nello spazio, tuttavia, siccome «gli aspetti più umili, umidi e umilianti dell'esistenza, sempre ignorati quando si parla di vicende epiche, nello spazio riprendono il sopravvento», impariamo anche moltissimo sui diversi modelli di gabinetti spaziali e su tutto il resto che riesce a far sopravvivere gli astronauti nelle condizioni più avverse alla vita.
Come scrisse Primo Levi per La Stampa in occasione dell'allunaggio sul Mare della Tranquillità: «Ma perché lo facciamo, non sappiamo: i motivi che si citano sono troppi, intrecciati tra loro, ed insieme mutualmente esclusivi».
Direi che con questa frase non solo si possono riassumere la maggior parte delle folli imprese esplorative dell'umanità, dalle tre caravelle di Cristoforo Colombo in cerca del continente sbagliato fino alla Tesla Roadster di Elon Musk in orbita solare, ma si capisce anche bene che i veri pellegrini dell'universo, in fin dei conti, siamo tutti noi.
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