Vogliamo essere positivi. Quest'estate ombelicale, in cui gli Italiani sono spinti dal Covid-19 a riscoprire il loro territorio, e paiono tutti all'Elba o in Puglia, tra i polittici fondo oro disseminati nelle pievi delle Crete senesi e i paesaggi umbri delle tavole del Perugino, forse non è destinata esaurirsi nelle prossime due settimane, con il ritorno a una realtà di distanziamento sociale dalla bellezza. Non siamo consegnati per necessità alla narrazione della degenerazione criminale della società e al distanziamento sociale dalla bellezza.
Ne è certamente convinto Nino Aragno, editore ineffabile, al limite dell'invisibile, la cui biografia sfuma nella leggenda, tant'è imprendibile il suo catalogo. Figlio di un sarto di Genola, nel Saviglianese, terra di meravigliosi e inaccessibili cicli pittorici barocchi, di battaglie e vicende curtensi di cui si è persa la memoria, Aragno pratica una sorta di haute couture dell'editoria, indifferente all'idea che il libro sia un capo prêt-à-porter, che consente un anno di sfoggiare Il Cardellino e la stagione dopo Il Colibrì. Per simbolo si è scelto il Chirone, ritenendosi un editore irrisolto, una parte di uomo una parte di bestia, «una di magia, che è il serpente, e c'è una parte di razionalità, che è la freccia». Non sappiamo se abbia letto il romanzo di Updike che Wallace (ma anche Cheever) considerava un capolavoro e tutti gli altri una girandola inconcludente.
Questa volta Aragno gioca in prima persona, da autore, pubblicando Sua Eccellenza Italia. Storie e identità di un mito, in cui prova a ricostruire la vicenda della nostra conoscenza e cultura, economia e impresa, attraverso la rievocazione della stagione del boom, in cui si fece rapidamente e in maniera straordinaria un Paese che non esisteva ancora, e che di lì a poco fu in grado di primeggiare tra i grandi stati nazionali che affondavano le loro radici al principio dell'età moderna. La lira, l'Autostrada del Sole, il primato nel design, i grandi architetti, capaci di fare scuola, la moda e lo stile di vita, che attraverso il cibo e il vino, è capace di rimodularsi in forme vuote, che contengono però un'idea persistente di seduzione.
«Ha senso parlare di un brand Italia?», si chiede Aragno. Lui che da imprenditore è sedotto in primis da coloro che eccellono nella capacità di lavorare duramente, in silenzio, costruendo storie generazionali di successo, che si radicano nel territorio, e ne diventano storia e immagine, sembra costruire l'identità di quel brand attraverso il racconto di vite di eccellenza, come avrebbero potuto scriverle Vasari o Bellori. Adriano Olivetti, Enrico Mattei, Enzo Ferrari, e ancora Ferrero e Bugatti, sino a Marchionne, «l'emigrante che ci diede la scossa».
Da piemontese serio, Aragno non sborda, il suo disegno storiografico è nitido, trasparente, mai didascalico, attento al momento in cui abbiamo tralignato, teso però a ricordarci che facciamo ancora parte di una stessa storia.
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