Nel gran caos di Roma, c'è una cosa che funziona a menadito: è l'Orchestra dell'Accademia di Santa Cecilia e la sua stagione (al via il 7 ottobre). Tony Pappano, il direttore d'orchestra e pianista che la conduce dal 2005, ha fatto un ottimo lavoro, e non solo sul podio. Vedremo - però - cambi di rotta significativi nell'attività di questo musicista inglese, di origini italiane, case a Londra, Roma, Umbria e cuore a Benevento da dove emigrarono mamma e papà. Pappano nel 2023 andrà alla testa della London Symphony chiudendo con Santa Cecilia, nel 2024 scade anche il contratto con la Royal Opera House di Londra. Lo abbiamo raggiunto in occasione dei concerti di stasera (15 luglio) nella Cavea dell'Auditorium del Parco della Musica di Roma, e di venerdì (16 luglio) nella Piazza del Campo di Siena.
È Sir e Cavaliere, vive fra Londra e Roma. Domenica, per la gran partita, da che parte stava?
«È stata una giornata difficile. Per fortuna avevo due concerti a Spoleto, quindi ero preso da altre cose... Diciamo che tifavo Inghilterra, ma solo perché non andava in finale dal 1966. All'epoca avevo 7 anni, avrei voluto rivivere quel momento...».
Dicono che in gioventù si trovò al bivio: musicista o calciatore?
«Da bimbo studiavo pianoforte, però mi piaceva da matti giocare a calcio. Più cresciutello non ebbi dubbi: musicista».
Musica, un settore che ha sofferto molto in questo anno e mezzo.
«La cultura è stata penalizzata in modo pazzesco. Quando vedi 60mila tifosi a Wembley mentre il nostro pubblico è super-contingentato, allora avverti quanto sia tutto scandaloso. Non abbiamo le stesse forze del settore dello sport, e così siamo stati penalizzati in maniera brutale e ingiusta».
Venerdì sarà a Siena, nella piazza del Palio, ahimè saltato per pandemia. Che sensazione Le fa?
«Tra l'altro ho avuto la fortuna di assistere a un Palio. Che dire, è una piazza iconica, carica di storia».
E dopo il concerto: Brunello o Chianti?
«Se fa tanto caldo, opterò per un bianco. Trovo impressionante l'esplosione di qualità e profondità del Chianti Classico negli ultimi 15 anni».
Cosa dice di Carlo Fuortes, uomo di teatro, indicato come AD della Rai?
«Uomo di teatro e non solo, è un uomo che sa fare. Siamo stati molto vicini quando era alla testa di Musica per Roma. Sono felice per la Rai e meno per l'Opera di Roma (Fuortes ne è sovrintendente, ndr) che perde un manager capace».
A questo punto si aspetta più attenzione alla musica da parte della Rai?
«Mi lasci dire che durante il lockdown la Rai ci è stata molto vicina».
L'Orchestra di Santa Cecilia è stata una delle poche belle certezze della Roma degli ultimi anni. Come ha fatto a far funzionare tutto?
«Ha funzionato perché c'è stata gran voglia di partecipare e di fare un lavoro di squadra. Puoi avere Napoleone davanti a te, ma se non c'è forza e desiderio di fare, tutto è impossibile».
Nel 2018 disse che sarebbe rimasto per sempre a Santa Cecilia. Cosa Le ha fatto cambiare idea?
«È arrivata l'offerta della London Symphony con cui ho un rapporto stretto dal 1996. Non ho potuto dire no».
Oggi un direttore musicale deve anche essere un uomo di relazioni. Il lavoro non finisce sul podio: giusto?
«Il direttore non può più permettersi di stare nella torre d'avorio. Deve a raccogliere fondi, saper comunicare quello che fa usando i nuovi mezzi. C'è tanta concorrenza».
Con i mecenati Lei è un campione
«Non si va dai sostenitori col cappello in mano. Non puoi solo chiedere, devi far vedere come si fa la musica così da creare una famiglia. In questi anni romani ho stretto amicizie con tanti mecenati, relazioni che vanno oltre l'aspetto finanziario».
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«In Italia dobbiamo lavorare sul pubblico del futuro.
Il Governo ci sostiene un poco, e ne siamo grati, ma niente a che vedere con quanto accade in Germania dove l'arte è cosa sacrosanta, c'è la consapevolezza che è un patrimonio importante. Da noi le strutture sono sempre più fragili».
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