Un libro giallo, e a maggior ragione un libro noir, contiene sempre qualche elemento truce. E non è solo questione di delitti. Sono proprio il clima e l'atmosfera a farla da padroni. Non c'è omicidio senza violenza, ed è difficile pensarlo come qualcosa di asettico. Prendiamo il genere hard boiled, nato negli Stati Uniti cent'anni fa, con autori che scrivevano storie a getto continuo, e fra i quali i più ricordati e influenti sono Raymond Chandler e Dashiel Hammett. Gli eroi protagonisti erano dei duri dal cuore tenero ma, se incontrati nella vita reale, non sarebbero piaciuti più di tanto a coloro che oggi stigmatizzano così volentieri ogni opinione e atteggiamento contrari alla «correttezza», sia essa di genere, etnica, sociale. In parole povere, erano misogini e spesso razzisti. Ma anche certi autori anglosassoni dei nostri tempi non vanno certo per il sottile. Per esempio James Ellroy. Scrive libri dove il bene e il male si struggono l'uno nell'altro. Lui stesso si definisce «Bianco, eterosessuale, nazionalista, militarista, capitalista». Basta leggere certi suoi capisaldi, come Dalia nera o I miei luoghi oscuri, per rendersi conto che nella sua letteratura non c'è consolazione.
E qui veniamo ai nostri, e all'oggi. La produzione di narrativa di genere giallo-noir è tracimante. È alla pari, se non superiore, rispetto a quella generalista. Ma qui scatta la sorpresa, che forse non è poi tanto grande, considerato la temperie culturale: la lingua di questi romanzi appare del tutto omologata al sentire corrente del pubblico mainstream, così come lo concepiscono le case editrici. In altre parole: è come se ci fossero paletti dappertutto. In un'analisi a campione fra le molte (troppe?) proposte di questi giorni ci s'imbatte per esempio nel bel romanzo di Andrej Longo Mille giorni che non vieni (Sellerio, pagg. 312, euro 15), dove il protagonista, Antonio Caruso, è un omicida scarcerato a sorpresa dopo una pena molto più lieve del previsto, e che deve rifarsi una vita a Napoli. La scrittura di Longo è molto sapiente, soprattutto nel parlato in prima persona. Un balordo, per quanto redento dalla lettura della Bibbia in prigione, non può certo pensare come un'educanda. Eppure, in tutto il flusso di pensieri del protagonista, non appare mai una parola fuori posto. Se qualcuno dice «ricchione», è la madre di un suo amico, non lui. Quando lui dice «una botta di culo», siccome sta parlando con un prete in chiesa, subito si intima: «Controllati». E così ogni volta che gli scappa la parola «culo». Perfino la figlia è stata picchiata dai compagni perché li ha presi «a male parole». Il massimo che l'autore concede al suo protagonista sono l'epiteto «menomata» rivolto a una ottusa burocrate e «cecata», riferito alla figlia che ha problemi di vista e porta gli occhiali. Riguardo agli immigrati dal Niger, nella lingua napoletana non si usa «negro», ma «nero», e perciò non si pone la quaestio della lettera «g», però nessun termine sprezzante è mai usato da nessuno, in nessun dialogo, neanche dai personaggi più spregevoli (e nel libro ce ne sono diversi). Qualche parolaccia, certo, l'ex galeotto la pronuncia, ma poca cosa e sempre fra sé e sé. E del resto tutta la vicenda è pervasa dal tono edificante e manicheo, dei buoni di qua e dei cattivi di là. È come se De Amicis si fosse catapultato ai giorni nostri e avesse deciso di usare un registro parlato. Ma la retorica della probità c'è tutta.
Accade lo stesso nel corposo romanzo di Luca D'Andrea, Il girotondo delle iene (Feltrinelli, pagg. 640, euro 22). La vicenda è ispirata al vero caso del serial killer noto come «il Mostro di Bolzano». Troviamo tutto un inferno di prostituzione, eroina, sangue, violenza, durezza delle forze dell'ordine e giornalismo cinico a caccia di titoli forti. Siamo nel 1992 e su temi sensibili già ci troviamo di fronte a dialoghi di questo tipo: «Quindi - ghignò la sovrintendente capo, stiracchiandosi - sei frocio. Al cento per cento? Mai un ripensamento?». «Omosessuale. Gay». «Non attaccarti alle parole». Sul concetto di discriminazione, e sul relativo uso dei termini «gay» e «frocio», si sente il bisogno di dare spiegazioni, pur se in modo funzionale alla definizione dei personaggi.
Sembra che l'excusatio non petita sia parecchio diffusa, o perlomeno questo si coglie girovagando fra i volumi e aprendoli a campione. Nel corposo In forma di essere umano, di Riccardo Gazzaniga (NoirRizzoli, pagg. 516, euro 17) si ricostruisce in chiave romanzesca la cattura in Argentina di Adolf Eichmann, non certo una mammoletta, visto che aveva coordinato le deportazioni degli ebrei verso i campi di sterminio. L'autore immagina che Eichmann stenda le proprie memorie. Parlando di Hans Frank, l'avvocato di Hitler, poi impiccato a Norimberga, dice: «Stronzo! Lo scrivo bello chiaro, qui. Ora posso. Stronzo!». Viene il dubbio che sia l'autore stesso a chiedere al lettore il permesso di usare una parolaccia. Del resto, qualche pagina più in là troviamo un personaggio buono che osserva pudico il «fondoschiena» di una donna da cui è molto attratto.
Come non dare infine una sbirciatina alle pagine più recenti di un grande moralizzatore quale Gianrico Carofiglio? Nel suo Rancore (Einaudi, pagg. 242, euro 18,50) tratteggia la figura della ex Pubblico ministero Penelope Spada alle prese con un delitto e con i meandri della propria dolente solitudine. A un certo punto troviamo un personaggio femminile che parla così: «La prima e l'unica volta che l'ho vista è stato al funerale. In passato avrei detto che era una puttanella, adesso anche solo il suono della parola mi disturba. Forse perché allude all'idea di esprimere un giudizio morale ()». Insomma, sul termine «puttanella», ancorché vezzeggiativo, il personaggio (e quindi un po' anche l'autore) si sofferma, quasi a giustificarsi.
Autocensura? Tabù linguistici? Perbenismo? Forse azzardiamo troppo.
Resta il fatto che in nessuna o quasi delle storie che ci aspetteremmo torbide abbiamo trovato, direttamente o indirettamente, una molto spiccata libertà linguistica. Toccherà andare a cercarla in altri campi, sempre che ci sia.
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