Ora gli "autori" si vantano di non aver letto i classici

Ora gli "autori" si vantano di non aver letto i classici

La mia generazione non esiste. Per anni ho creduto che quelli nati tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta, scontassero un rapporto con i padri quanto meno complicato. I ragazzi che avevano infatti vissuto la loro giovinezza nei Settanta, ripudiando il padre, la sua stessa figura simbolica, non avevano messo in conto che padri, volenti oppure no, lo sarebbero diventati pure loro. Questo ripudio ha avuto la conseguenza di lasciare orfani i propri stessi figli, e ai figli (la mia generazione) di essere padri dei loro stessi padri. Ma sbagliavo. O meglio, non rinnego la prima parte del ragionamento ma la seconda. Quei figli padri non lo sono mai stati, non vogliono esserlo. Anzi, prima ancora della paternità, questione che apparteneva a chi li ha preceduti, quello che hanno rifiutato è di essere uomini. La mia generazione non esiste. È la prima a non avere un progetto, a non prevederlo (un progetto culturale una visione del mondo). La prima che non ha costituito alcuna comunità, fedele solo a una desolante disciplina a cui la costringe la vacuità. La sola che, domani, non avrà nulla da difendere o da rinnegare e rimproverarsi perché non ha fatto alcuna promessa. Leggo un articolo di Francesco Musolino (sul Il Fatto Quotidiano di sabato scorso) in cui alcuni autori under 40 confessano quale sia il classico che non hanno letto. Mai la banalità è stata tanto esplicita come avesse finalmente messo radici, trovando una sua legittimità d'esistenza. Chi di noi ha letto tutto? Ovviamente nessuno. Ma il problema è altrove. Alessandro Mari, per esempio, dichiara che della Ricerca del tempo perduto ha letto solo i primi tre volumi, poi ha capito il gioco e lo ha mollato. Ma se ci avesse capito davvero qualcosa, non avrebbe usato la parola «gioco». Così Cristina Di Canio, la quale afferma che il capolavoro di Proust non ci pensa neppure a leggerlo, perché tempo da perdere non ne ha. Ci si domanda se non sia «tempo perduto» quello che trascorrono a scrivere. Poi ci sono quelli, come Andrea Marcolongo, che partono all'estero per scrivere il loro libro, salvo poi non essere in grado di apprezzare neppure una pagina di Dostoevskij. Ora, il fatto che qualcuno non abbia terminato (o mai cominciato) la Ricerca di Proust, o l'Ulisse di Joyce, o L'uomo senza qualità di Musil, o I fratelli Karamazov di Dostoevskij non è certo una colpa. La colpa è non desiderare neppure di leggerli. Addirittura, di questa indifferenza, farsene un vanto, nascosto dietro l'ironia o la falsa umiltà. Ce lo ha insegnato Dostoevskij a far precedere all'umiltà l'umiliazione. Sentendo la vergogna di noi stessi troviamo noi stessi. La colpa, se ha un'utilità, è quella di farci sentire sempre in difetto conoscitivo. Ed è la colpa che accende in noi il desiderio di conoscenza. Ma loro sono spavaldi, vogliono essere giovani, scrivere liberamente i loro libri e avere per modello, che so? I Simpson o South Park, perché quella sì che è cultura va di moda! A quarant'anni sono ancora bambini, pure se non lo sanno, perché non hanno vergogna. Sfogli i loro libri e leggi solo storielle, che sono diventate il caso dell'anno o il libro che li ha fatti soffrire perché nessuno lo ha recensito.

Ma cosa c'è dentro questi romanzi, cosa hanno davvero messo in gioco di se stessi? Dove il coraggio, il talento, la verità? La mia generazione non esiste non perché non ha letto Proust o Dostoevskij, ma perché ha smesso di credere che leggere loro, o scrittori della loro stessa statura, sia avere fede nel fatto che la vita è profonda, complessa che la vita è necessario sognarla, prima di viverla.

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