È il cielo sopra la Capitale, vacua e disfatta, potente e deprimente. È Roma, naturalmente, ma è il Paese tutto: «La rappresentazione di un fastoso naufragio, di un diffuso sentimento di impotenza e decadenza che pervade oggi la società italiana in modo trasversale». Così Paolo Sorrentino a proposito del suo La grande bellezza, sontuoso e barocco ritratto (10 milioni di budget, 140 minuti di durata) della Roma più cafonal e grottesca del nuovo millennio (dopo quella politica del Divo) per cui s'è scomodata anche la memoria di Fellini e della sua Dolce vita per un film che - dice chi l'ha visto - è un racconto molto sorprendente, perché interiorizzato dal regista, pieno di rimandi, di citazioni, di affinità elettive (anche con il cinema di Bellocchio).
Di sicuro è il film italiano più atteso (in rete circolano pre-recensioni basate su trailer e foto) preso immediatamente in concorso al festival di Cannes dove passerà nelle stesse ore della data di uscita in Italia quando Medusa (produttore con Indigo) lo distribuirà il 21 maggio: «Andarci per la quinta volta di seguito è una responsabilità e un onore», ha commentato il regista napoletano. La giuria capitanata da Spielberg non saprà chi è Giuseppe D'Avanzo (il giornalista di Repubblica scomparso due anni fa, al quale il film è dedicato) ma non farà fatica a riconoscere gli stilemi di una certa Italia (bunga-bunga?) riconoscibile anche all'estero.
Tutto ruota intorno a Jep Gambardella (interpretato dall'attore feticcio Toni Servillo), 65 anni, scrittore e giornalista un po' gagà all'epoca dello sbarco dalla provincia nella capitale a 26 anni, ora con gli occhi perennemente annacquati di gin tonic che si presenta così allo spettatore: «Quand'ero ragazzino e mi chiedevano qual era la cosa che preferivo, io rispondevo: l'odore delle case dei vecchi. Era destino che diventassi scrittore». E infatti il nostro - ha scritto Anselmi sul Secolo XIX - è alle prese con la scrittura del suo nuovo romanzo molti anni dopo il successo del primo libro, «L'apparato umano» che in un primo momento era anche il titolo stesso del film. Ma non sa bene da dove cominciare. Poi il libro diventa il film che ha davanti gli occhi: una Roma minuziosamente ricostruita (su Ciak i produttori Giuliano e Cima rivelano il lunghissimo street casting con migliaia di cittadini fotografati e poi chiamati come comparse) ma trasfigurata dal talento visionario di Sorrentino dove dame dell'alta società, parvenu, politici, criminali d'alto bordo, giornalisti, attori, nobili decaduti, alti prelati, artisti e intellettuali veri o presunti tessono trame di rapporti inconsistenti, fagocitati in una babilonia disperata che si agita nei palazzi antichi e nelle ville sterminate.
Sullo sfondo, Roma, in estate. Bellissima e indifferente. Come una diva morta. L'urbe «puttana e santa» (come canta nel suo ultimo bellissimo disco Giovanni Lindo Ferretti) splende di una bellezza inafferrabile dove - racconta il protagonista - «tutto è sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio, il sentimento, l'emozione e la paura, gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza e poi lo squallore disgraziato e l'uomo miserabile. Io non volevo essere semplicemente un mondano, volevo diventare il re dei mondani». E le immagini del trailer, incentrate su una festa in una terrazza di Via Veneto accanto alla megapubblicità Martini con Com'è bello far l'amore di Raffaella Carrà in versione dance, dicono molto del carattere e del tono del film che contrappone momenti di sfrenatezza collettiva da corte dei miracoli (un'eccessiva Serena Grandi che esce da una torta) a zoomate di grande introspezione psicologica.
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