Perché è il "1947" l'anno che ha fatto la nostra storia

Per Elisabeth Asbrink è "davvero strano", che nessuno si sia accorto dell'importanza del 1947. "Un anno decisivo per il mondo e per l'Europa"

Perché è il "1947" l'anno che ha fatto la nostra storia

Per Elisabeth Asbrink è «davvero strano», che nessuno si sia accorto dell'importanza del 1947. «Un anno decisivo per il mondo e per l'Europa, oltre che per la mia storia personale» dice la scrittrice svedese, in Italia per presentare il suo libro che s'intitola, appunto, 1947 (Iperborea, pagg. 314, euro 18; trad. Alessandro Borini). Ha fatto la giornalista per molti anni: è lei che, nel 2010, ha rivelato che il leggendario fondatore dell'Ikea Ingvar Kamprad a 17 anni si era iscritto al partito nazista svedese. Asbrink procede, mese dopo mese, luogo dopo luogo, apparentemente «riportando» i fatti («verificati e verificabili» precisa) di quel 1947: «La cronologia è una sorta di meravigliosa struttura di base, che chiunque comprende; però, intorno a questa ingegneria molto stabile ho potuto fare digressioni, essere molto libera». Nel 1947, in una sola settimana di fine febbraio, succedono tre cose che scatenano un «effetto domino» mai esaurito: «Il 18 febbraio la Gran Bretagna dice al mondo: non vogliamo più la Palestina, decidano le Nazioni unite che cosa fare. Due giorni dopo, il giovedì, ancora la Gran Bretagna dichiara: l'India sarà indipendente. Trecentocinquanta anni di Impero crollano. Lord Mountbatten, lo zio di Filippo di Edimburgo, va in India per organizzare il percorso dell'indipendenza, ma ha fretta. E questo ha conseguenze catastrofiche: 14 milioni di rifugiati». Negli anni '60, Lord Mountbatten ammetterà: «Ho fatto un casino». Quella settimana di febbraio non è finita: «Al venerdì, sempre la Gran Bretagna annuncia che non darà più soldi a Turchia e Grecia. Così Truman chiede dollari al Congresso, perché non finiscano nell'orbita di Stalin. Nascono la dottrina Truman, la lotta al comunismo e, in settembre, la Cia». È la Guerra fredda.

L'Europa intanto è piena di rifugiati (oltre che di nazisti in fuga...), soprattutto ebrei che vogliono andare in Israele. Fra questi profughi, in un campo nel Sud della Germania, c'è un bambino, che in realtà non è orfano come tutti gli altri e che diventerà il padre di Elisabeth Asbrink. Ha dieci anni e deve scegliere, da solo, se partire per un kibbutz, oppure tornare con la madre a Budapest. Siccome la mamma ha in borsa delle succulenti salsicce ungheresi, decide per la seconda opzione. «Oggi dice che forse avrebbe scelto diversamente». Nel '56 sarà costretto a fuggire di nuovo, e andrà in Svezia. Così, dice Asbrink, «la storia ci influenza, sempre: non è mai dietro di noi. Mio padre, da rifugiato, guarda sempre avanti; io invece indietro. Ci compensiamo». In quell'anno si pongono «nuovi standard morali» con il processo di Norimberga, la Dichiarazione dei diritti dell'uomo, la battaglia di Raphael Lemkin per istituire il «genocidio» come crimine. «Tutto è in movimento, ogni cosa deve essere ricreata; perché tutto era stato sovvertito, ed era finito in un abisso». Il 1947 è un anno di grandi invenzioni: «I transistor, la Polaroid, i film a colori, purtroppo anche il Kalashnikov. E il jihad, perché Hasan al-Banna introduce il culto della morte: un'arma che funziona tuttora.

Al-Banna era amico del Gran Muftì di Gerusalemme, a sua volta amico di Hitler: ci sono echi nella storia, collegamenti inquietanti». C'è anche un uomo, in quel 1947, che ha previsto il nostro futuro: è malato, è solo col figlio su un'isola remota delle Ebridi e per tutto l'anno scrive un romanzo, che sarà un classico. S'intitola 1984.

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