Marco Settimini
«Non ci sono grandi, tra gli uomini, se non il poeta, il prete e il soldato», annotava Baudelaire. Tra questi, Charles Péguy (1873 - 1914) il quale, etichettato da Papini «uno dei quattro evangelisti del Novecento», lungi dal farsi prete, fu poeta e soldato e, suo evangelista, il teologo del Novecento, tanto più tale quanto fu carnale. Il Verbo fattosi carne, e dunque tempo, è tema fondamentale della sua opera: l'irruzione e poi - quotidiana - l'inserzione dell'eterno nella storia, divinizzata; e ogni cosa così riscattata. Ma anche giudicata. E Péguy giudicava. E lo faceva contro la corrente di quello che Rimbaud bollò, in Una stagione all'inferno, come «l'Ecclesiaste moderno».
Maggio 1905. La situazione economica del poeta di Orléans è pessima. L'amico Charles Lucas de Pesloüan gli suggerisce di tentare la via di un premio dell'Académie française. Due anni e mezzo dopo ci sta ancora pensando quando Barrès si interessa a un suo progetto su «Parigi città di preghiera». Péguy ne estrae una decina di fogli ma finisce con l'accantonare il lavoro a causa della malattia. Il 16 novembre 1908, l'indomani di una lettera a Pesloüan in cui confida le sue intenzioni suicide, l'amico rilancia: ha visto Barrès, l'idea del premio dell'Académie è sempre presente; ma l'opera sarà pubblicata, incompiuta, solo nel 1955, da Gallimard.
Il titolo è ispirato da un poeta del XVI secolo, Pierre de Ronsard, della cui Elegia contro tagliatori della foresta di Gastine Péguy parafrasa il sottotitolo, che diventa contro i tagliaboschi della stessa foresta. I devastatori sono quelli che credono, per dirla con Baudelaire, «che l'uomo possa tutto e che il vapore, la ferrovia e l'illuminazione a gas provino l'eterno progresso dell'umanità», mentre per i due poeti la civilizzazione non è né scienza e tecnica né Marx e Mazzini, ovvero «né nel vapore, né nei tavolini spiritici, ma nella diminuzione delle tracce del peccato originale».
Follia: così la vulgata modernista riguardo la dottrina del peccato originale. Follia: così Deleuze, filosofo antipsichiatrico, definirà la scrittura di Péguy. Per via del suo stile: martellante, sovraccarico, ridondante. Nei poemi come nelle prose; sempre nell'atto di ricominciare, come l'eterno nel tempo, come il continuo sondare e ripensare il mondo per invertire la direzione che ha intrapreso con le rivoluzioni moderne, e così ritrovare l'Albero della Vita. Che le radici siano nel Medio Evo è, per la modernità, per un mondo che per primo «sembra prosperare contro ogni cultura», il più grande scandalo. Le contingenze del carnale, però, contengono sempre l'eterno, e non per caso Péguy apre l'opera con una sorta di riscrittura moderna dell'Ecclesiaste.
È nel tempo che tutto è in gioco: nella realtà, non nelle astrazioni; e in gioco ci sono: l'arte contro la sociologia, la vita contro l'infecondità, la gioventù contro le pedagogie e la scuola e gli insegnanti, attivi nel «mummificare la realtà, le realtà a loro imprudentemente affidate», come scrive ne La nostra giovinezza. «Niente di nuovo sotto il sole», recita l'Ecclesiaste. Il problema sono il cielo e gli alberi velati da ceneri funeree. Non c'è luce che illumini la vita.
Drieu la Rochelle farà eco a Péguy, dopo la guerra in cui il poeta e soldato trovò la morte: «Tutti passeggiano soddisfatti nell'incredibile inferno, nell'enorme illusione, nell'inferno di spazzatura che è il mondo moderno e in
cui, ben presto, non penetrerà più un raggio di luce spirituale». Era lo stesso timore di Péguy, il quale, optando per l'elegia, esplicita il radicamento nella civilizzazione cui si vuol rifare: ellenica, latina, cristiana.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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