
E chi la ferma più. Mina ha inciso il manifesto della sua America, quella che le ha cullato la gioventù. Dodici canzoni, tutte pubblicate per la prima volta tra il 1930 e il 1970. Undici standard ormai, da Just a gigolo fino a I've got youunder my skin di Cole Porter o Love me tender di Elvis Presley, sì proprio lui. Più un brano che da domani diventerà di diritto un classico di qualsiasi (grande) interprete: Fireand rain di James Taylor. «Lei è cresciuta con queste canzoni, è stata la prima in Italia a prendere brani altrui e farli propri», spiega suo figlio Massimiliano Pani, che è il produttore di un disco registrato in studio con tre mostri come Danilo Rea al pianoforte, Massimo Moriconi al contrabbasso e Alfredo Golino alla batteria più chitarre e gli archi arrangiati da Gianni Ferrio. Jazz soprattutto. E swing. «È stata una goduria registrare queste canzoni, anche se nella lista originaria dei pezzi da incidere, mia mamma ne aveva inseriti quasi cinquanta». Qui di fianco Mina riassume il perché abbia scelto proprio i dodici brani di questo disco che non casualmente si intitola 12 (american song book). Adesso non resta che spiegare il come le abbia cantate. A bassa voce. Sì: bassa. Che non significa poca. Soffusa, più che altro. Sembrerà strano per una delle interpreti più famose del mondo, straconosciuta per l'ampiezza dello spettro vocale e l'eclettismo del timbro. Oltre cento dischi pubblicati in mezzo secolo e rotti. Decine di capolavori riconosciuti e riconoscibili. Però la classe dell'interprete è proprio questa: non voler dimostrare per forza di quanta voce disponga. Ma di come la sappia usare, con quali sfumature e quanto personali siano. Qui lo sono e manco c'è da dirlo. Prendete il divertissement di Banana split for my baby che è stata cantata da Louis Prima nel 1956 (e che si può riascoltare nella versione di The wildest! pubblicata nel 2002): Mina giocosa, mai invadente. Oppure in September song di Kurt Weill: Mina fumosa, notturna. Qui, forse per la prima volta da tanti anni, Mina dimostra di essersi in parte «sminata», libera e mai autoreferenziale, persino adolescente nell'entusiasmo di Over the rainbow o persa nella sensualità vissuta di I'm glad there is you.
«Dopo tre dischi di canzoni inedite, questo è un progetto monotematico, una specie di portrait, di ritratto di una parte della canzone americana», spiega Pani che poi aggiunge: «Ce ne saranno altri, magari di bossa. O di tango. O di canzone napoletana. E persino di rock. E sicuramente saranno alternati ad altri dischi di inediti». In fondo Mina può far quel che vuole, anche se qualcuno le consiglia il ritiro definitivo per manifesta superiorità o manifesta assenza (l'ossimoro riservato a chi c'è troppo ma non si fa mai vedere). «Mina non serve più alla televisione, l'ha lasciata quando ha capito come sarebbe diventata», dice a rullo Pani. Lei canta. Ogni tanto scrive (su Vanity Fair ma non più sulla Stampa perché «è cambiato il rapporto»). E osserva il nostro mondo dalle finestre di Lugano, che ci sono più vicine di quel che sembri. «Per i 50 anni della Rai le avevano chiesto di compilare un elenco delle immagini più significative. L'ha preparato ma poi hanno iniziato a porle veti, incoraggiare altre scelte. E tutto è finito lì».
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