Intanto scusate le parolacce. Ma rendono l'idea: «Sono un testardo e penso che un vero fottuto gruppo possa fare fottuti dischi anche quando è fottutamente vecchio». Minimalismo concettuale. Esprit de finesse a parte, lo scavezzacollo Iggy Pop ha 66 anni, quarant'anni fa con gli Stooges ha cantato nel disco decisivo Raw Power, poi è diventato un simbolo, ne ha combinate di tutti i colori e ora zac!: dopo sei anni tra poco pubblica il disco Ready to die - che sarà firmato Iggy & The Stooges - e conferma perché, quando si nasce punk, poi non si smette più di esserlo. Il primo singolo Burn lo conferma: chitarre affilate e grezzissime, batteria assai metallica e quasi piatta, vocione come si deve. Poi Sex & Money e Job non spostano di una virgola quanto già si sa: questi picchiano duro, niente fronzoli sia chiaro. Ready to die non sarà certo un disco che cambierà la storia del rock, al massimo le aggiungerà un paio di righe. Però, a metà tra coraggio e folclore, diventerà un caso perché una band di punk ultrassessantenni è un caso per definizione. Facile fare i casinisti a vent'anni. Più difficile, forse incosciente e perciò irrinunciabile, farlo quando il conto in banca è ben pasciuto e nel curriculum figurano overdosi quanto basta, eccessi, morti, arresti. Perciò Iggy Pop, nato James Newell Osterberg nel 1947 nel Michigan è un simbolo: «Se non terrorizzo il pubblico, non mi sento me stesso». È stato punk prima che nascesse il punk e lo è ancora dopo il suo pensionamento. Ha diviso droga e Berlino con David Bowie (che remixò tutto Raw power a parte la violentissima Search & destroy) e difatti il regista Gabriel Range sta per girare un film proprio sulla loro storica vacanza berlinese. Titolo scelto: Lust for life, storico pezzo di Iggy Pop inserito anche nella colonna sonora di Trainspotting.
E mica è tutto qui.
Gettandosi sul pubblico dal palco durante i concerti, ha inventato lo stage diving (e si è anche fracassato qualche osso perché talvolta il pubblico, come dire, non aveva voglia di farsi travolgere). Ha cantato country, metal e persino jazz e blues. Per anni si è tagliuzzato il petto durante i concerti e, per farlo, non doveva neppure togliersi la maglietta visto che canta a torso nudo anche quando ci sono dieci gradi sottozero. A guardarlo, fa impressione: scheletrico, volto da fine pena mai ad Alcatraz, cicatrici e vene e muscoli bene in vista a ricamare un fisico minuto ma fatto apposta per il rock: persino la sua lieve zoppìa sparisce quando lui sale sul palco e inizia a urlare, a scavallare sugli amplificatori, insomma a inscenare quel rito quasi orgiastico che sono i suoi show.
Per capirci, forsennato com'è, chiunque altro al suo posto verrebbe spernacchiato dal novanta per cento dei giornalisti. Ma Iggy è un beniamino della critica, anche di quella che ha sempre ritenuto il rock duro solo un'accozzaglia di suoni per trogloditi. Sarà perché è così genuino da disinnescare ogni obiezione. O perché le ha sempre ricambiate alzando il dito medio e usando le parolacce di cui sopra. Però, se non fosse uno dei cento cantanti più importanti del rock (secondo Rolling Stone), se Kurt Cobain non avesse detto che Raw Power era il suo disco preferito e se non cantasse con la stessa energia davanti a cento come a centomila spettatori, oggi il piccolino Iggy sarebbe tutt'al più in seconda fila nel Museo delle cere rock. Invece gira il mondo manco avesse vent'anni. E ritorna sul palco con gli Stooges prima ancora di pubblicare l'album: mercoledì vernissage (si fa per dire) ad Austin in Texas, poi tour mondiale in partenza dall'Australia e in arrivo a Roma il quattro luglio e a Milano l'undici.
Naturalmente lui precisa che «non vado a cazzeggiare sul palco solo per fare fottuti soldi». Per carità, basta incontrarlo una volta sola per accorgersi che uno così dal palco non scenderebbe mai. Neanche se ci fosse salito gratis.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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